Ecco perché l'economia italiana rischia di incagliarsi a Suez tra ritardi e nuova inflazione

Lo stretto corridoio d’acqua vale per il nostro Paese almeno 1 milione di posti di lavoro. Esplodono i costi di trasporto e quelli delle polizze. Allarme per i prodotti deperibili

Ecco perché l'economia italiana rischia di incagliarsi a Suez tra ritardi e nuova inflazione

C’è un nuova bufera che rischia di abbattersi sull’Europa e in particolare sui Paesi affacciati sul Mediterraneo, Italia in primis; una bufera con epicentro nel Mar Rosso; una bufera che potrebbe tornare a gonfiare le vele dell’inflazione; una bufera, infine, che rischia di vanificare le speranze di un allentamento della stretta sui tassi già nel 2024. «Niente più del Canale di Suez ha fatto comprendere il livello di interconnessione esistente tra geopolitica e trasporto marittimo. L’incidente avvenuto nel marzo 2021 con l’incaglio della portacontainer Ever Given, che ha provocato la chiusura della via d’acqua egiziana per una settimana, ha messo in luce i molti problemi che possono derivare al commercio mondiale che, è bene ricordare, per il 90% viaggia via mare».

Quando a ottobre Luigi Merlo vergava queste righe nel suo saggio «Rivoluzionare la politica marittima italiana», mai avrebbe immaginato che poche settimane dopo il mondo sarebbe nuovamente precipitato nell’incubo Suez. Grande esperto di questioni di porti e trasporti via mare, due volte presi d e n t e dell’Autorità portuale di Genova, Merlo aveva quale obiettivo primo di dare una sveglia all’Italia affinchè finalmente si dotasse di un “Cavour del mare“, con un proprio ministero in grado di fornire al Paese una nuova visione e una strategia coerente di fronte a potenziali rotture degli equilibri geopolitici. Le crescenti tensioni provocate dagli attacchi armati dei ribelli Houthi alle navi commerciali in transito tra lo Yemen e il Mar Rosso, costringono però ad anticipare le contromisure per attenuare le gravi conseguenze che il perdurare del le tensioni in Medio Oriente potrebbe provocare alle economie mediterranee. Il fatto che quasi tutte le compagnie cargo - a cominciare dall’italo-elvetica Msc, abbiano deciso di rinunciare al transito nel Canale di Suez per evitare pericolose aggressioni, costringe le navi -container provenienti per esempio da Singapore a circumnavigare l’Africa, passando per il capo di Buona Speranza, e quindi dirigere verso l’Europa in un percorso che si allunga mediamente di 3.200 miglia marine (quasi 6mila chilometri). Il che significa due settimane in più di durata del viaggio, con forte aggravio di costi sia in termini di noli (il cui prezzo da inizio dicembre è più che triplicato) sia di polizze assicurative, il cui premio è ora anche quattro volte quanto pattuito solo un mese fa. Per non dire dei danni provocati alle catene del valore, con le aziende che a causa dei ritardi nelle forniture sono costrette a bloccare la produzione (i gruppi Tesla, Volvo e Ikea lo hanno già fatto), pronte naturalmente ad alzare il prezzo dei prodotti finiti a causa dell’aumento dei costi a monte. Ed è qui che si alimenta il primo focolaio della nuova insidiosa inflazione. Per avere idea dell’incidenza sul traffico marittimo globale di quel budello d’acqua largo fino a 100 metri e lungo 161 chilometri che separa l’Egitto dalla Penisola del Sinai, basti osservare che ogni anno vi transitano 20mila navi (il 12% del totale) che insieme generano un fatturato a livello europeo pari a 670 miliardi - la quota italiana sfiora 140 miliardi, secondo altre valutazioni 154 miliardi - che dà lavoro a 4,5 milioni di persone, di cui 1 milione in Italia.

Quanto al valore delle merci trasportate, si può azzardare una stima in base ai beni assicurati, una stima persino difficile da scrivere per il numero di zeri necessari, vale a dire 1 miliardo di miliardi di dollari.

Che la situazione sia ad alto rischio è provato dal fatto che secondo i dati di tracciamento monitorati dall’agenzia Bloomberg, nell’ultima settimana solo 114 navi commerciali (tra cui petroliere, navi portarinfuse e navi-container) hanno proseguito la rotta tradizionale e sono transitate dentro o fuori dal Mar Rosso attraverso lo stretto di Bab el-Mandeb: la settimana prima erano 131, un mese fa 272. «Stiamo assistendo a una escalation che può portare a possibili contagi anche per ciò che riguarda i prezzi dell’energia», ha osservato ieri il commissario europeo Valdis Dombrovskis. Tuttavia, sul fronte del petrolio al momento non si intravedono segni di allarme: ieri il prezzo del Wti (il greggio americano) è calato dello 0,29% a 72 dollari il barile, quello del Brent è rimasto più o meno al livello della vigilia, ovvero 78 dollari.

Nondimeno, in serata Shell ha annunciato di aver sospesole spedizioni che transitano in quell’area, riflettendo la crescente preoccupazione per un ulteriore peggioramento del conflitto. Sicché, a lungo andare è impensabile che il fronte delle materie prime non subisca scossoni. Tra l’altro, per quanto riguarda l’Italia l’allungamento delle rotte verso Oriente mette a rischio anche la voce export per alcuni generi.

Il forte ritardo nelle consegne di prodotti deperibili, come frutta e verdura, procura perdite importanti di fette di mercato che poi saranno difficili da recuperare. E non si tratta di numeri modesti: secondo Coldiretti, nel 2022 abbiamo esportato 217 milioni di chili di frutta, di cui oltre 182 milioni di chili mele, con principali destinazioni l’Arabia Saudita (oltre 66 milioni di chili), l’India (oltre 51 milioni di chili) e gli Emirati Arabi (oltre 15 milioni di chili).

Peraltro, proprio l’Italia rischia di dover subire i maggiori danni, visto che la circumnavigazione dell’Africa rende più agevole fare rotta sul porto di Rotterdam, piuttosto che in direzione di quello di Trieste, aggiungendo così danno a danno.

Difficile immaginare fino a che punto la situazione può aggravarsi se la tensione in quell’area dovesse durare ancora settimane. Di sicuro l’Europa ne uscirebbe ancora più debole di quanto già non sia nello scacchiere mondiale.

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