Xi Jinping accompagnato verso l'uscita della Grande sala del Popolo mentre cerca un ultimo contatto col nuovo presidente cinese: è questa la scena a cui i mercati avrebbero voluto assistere domenica scorsa. Il vecchio leader è invece ancora lì, più saldo che mai, lo scettro in mano per altri cinque anni, forse ad libitum. Cristallizzazione del potere equivalente a un ferreo mantenimento dello status quo in ambito politico, sociale e, naturalmente, economico.
Nel mancato passaggio di consegne svapora l'idea di una Nuova Cina. L'agenda del futuro rischia di essere la stessa di ieri. Non sorprende perciò che una crescita nel terzo trimestre del Pil del 3,9%, benché superiore alle attese, sia scivolata ieri come acqua sul marmo mentre la Borsa di Shangai cedeva il 2%, quella di Hong Kong collassava del 6,3% e giganti come Alibaba e Tencent sprofondavano sotto il peso delle vendite (-11 percento).
È d'altra parte proprio sul settore hi-tech che si concentrano le maggiori preoccupazioni degli investitori. Negli anni terminali del suo secondo mandato, i giri di vite dati imposti da Xi al trattamento dei dati personali e le rigide norme sull'impiego degli algoritmi sono già costati miliardi di dollari in termine di capitalizzazione. La politica draconiana di contrasto al Covid ha fatto il resto, imponendo una espansione economica singhiozzante.
Queste rigidità sono destinate a permanere, come dimostrano i più recenti lockdown che hanno riguardato sei distretti di Pechino e i 21 milioni di persone finite in isolamento coatto a Chengdu. E con il passare delle settimane, l'assenza di un «liberi tutti» renderà sempre meno raggiungibile l'obiettivo di una crescita del 5,5% quest'anno. Un traguardo, peraltro, che già sarebbe complicato tagliare in condizioni normali. Il Dragone soffre infatti di un problema demografico: la popolazione invecchia, i matrimoni sono scesi al minimo storico e il tasso di natalità è inferiore a quello giapponese. Ciò si traduce in un potenziale di crescita inferiore, più oneri per il sistema pensionistico e molta meno urgenza di costruire case. Goldman Sachs stima che la domanda di alloggi potrebbe scendere dai 18 milioni di unità all'anno del decennio 2010-2020 ai 6 milioni entro il 2050.
È un fenomeno da non sottovalutare, al pari di quello che ha portato al crac il gigante d'argilla Evergrande e fatto vacillare Sunac e Greenland, con ripercussioni sul sistema bancario legate non solo all'esposizione verso il settore immobiliare ma anche a causa dei mancati pagamenti delle rate dei mutui da parte dei milioni di cinesi rimasti senza casa. Una mina che Xi Jinping non ha finora disinnescato nonostante gli interventi di sostegno che hanno fatto lievitare l'indebitamento (oltre 100 miliardi di dollari solo in maggio). Il ridimensionamento del mattone dovrebbe spingere Pechino ad accelerare lo sviluppo di comparti più produttivi, ma il deterioramento delle relazioni con gli Usa, dopo il divieto posto da Washington all'utilizzo dei chip statunitensi, complica la transizione. Nel frattempo, la politica di rialzo dei tassi da parte della Fed sta comprimendo il valore dello yuan e alimentando i timori di forti deflussi di capitale.
Grossi nodi, insomma.
Tra questi, anche la debole domanda interna, visto che le importazioni di greggio sono calate in settembre del 2%. Stretta nella clausura auto-inflitta, la Cina non consuma. Per arrivare all'«autosufficienza nazionale» prospettata da Xi Jinping, novello Mao Tse-tung, ci vorrà un'altra lunga marcia.
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