«Il mondo intero, e la Cina in particolare, è in recessione». Parola di Fedex. E se lo dice il gigante che per mestiere consegna pacchi pressoché in ogni angolo del globo terraqueo, c'è da credergli. Anche perché il gruppo Usa sta pagando sulla propria pelle il rapido deterioramento della congiuntura globale. Un profit warning sull'intero 2023 è costato ieri al titolo un bagno di sangue a Wall Street, con un -22% a un'ora dalla chiusura e con oltre 11 miliardi di capitalizzazione andati in fumo. Fedex non sembra insomma credere alla vulgata corrente di una blanda correzione del ciclo economico destinata a non far male quasi a nessuno; né - tantomeno - ritiene che il Dragone abbia spalle sufficientemente robuste da sostenere la crescita mondiale, come fece dopo la crisi finanziaria globale.
Pechino deve del resto far fronte a due problemi irrisolti e, peraltro, indissolubilmente legati fra di loro. Il primo rimanda alla politica di tolleranza zero adottata per contrastare le recrudescenze della pandemia da Covid, con lockdown che hanno portato alla clausura forzata di centri nevralgici della produzione cinese. Le restrizioni, benché ora più mirate e meno dirompenti, non aiutano a sciogliere il secondo nodo, quello del settore immobiliare su cui continua a pendere sopra la testa la spada di Damocle delle insolvenze. Il sequestro della sede di Hong Kong subìto qualche giorno fa da Evergrande, gravata da un debito di 300 miliardi di dollari, è la cartina di tornasole di un comparto in estrema sofferenza, come dimostra anche il crollo degli utili accusato nel primo semestre da Country Garden, il più grande colosso del real estate cinese. Come già in altre occasioni, la mano pubblica sta cercando di mettere l'ennesima toppa, sotto forma di prestiti speciali per un controvalore di 200 miliardi di yuan (29 miliardi di dollari), allo scopo di consentire la chiusura dei cantieri aperti. Il punto di strozzatura è infatti proprio la mancanza di fiducia da parte degli acquirenti sulla capacità degli sviluppatori di completare le case in costruzione. Così, le vendite di nuove immobili residenziali si inceppano e la liquidità delle imprese del comparto finisce ancor più sotto stress. Sono i numeri diffusi ieri a confermare che un punto di svolta non è all'orizzonte: in agosto gli investimenti immobiliari sono crollati del 7,4% rispetto all'inizio dell'anno e le vendite di case sono scese del 3%. È evidente che la limitazione delle libertà personali riduce la propensione alla spesa delle famiglie. Anche se il tasso di disoccupazione si è ridotto il mese scorso al 5,3% dal 5,4% di luglio, le vendite al dettaglio sono salite di un asfittico 0,5% annuo, una percentuale che impedisce di aggiungere qualche decimo di punto a una crescita prevista quest'anno al 5,5%. Il vero punto interrogativo è se un eventuale crollo del mattone possa degenerare in una vera e propria crisi finanziaria dalle conseguenze incalcolabili. Morgan Stanley ritiene l'ipotesi improbabile: «La Cina ha standard ipotecari prudenziali molto severi e una modesta esposizione delle banche al settore immobiliare».
C'è però un altro fronte che il presidente Xi Jinping e la People's Bank of China non possono permettersi di sottovalutare. È quello valutario. Per la prima volta in due anni, lo yuan cinese si è indebolito ieri oltre la soglia psicologica di 7 nel cambio con il dollaro.
L'aggressiva politica di incremento dei tassi adottata dalla Fed gioca a sfavore del renminbi, la cui debolezza potrebbe alimentare il timore di deflussi di capitale proprio nel momento in cui le autorità vogliono raccogliere le risorse per rilanciare l'economia.
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