L'atto finale del Credit Suisse è una cerimonia degli addii dove il «mea culpa» dei vertici non stempera la rabbia di azionisti e obbligazionisti, finiti nel tritacarne della fusione coatta con Ubs. Palpabile la tensione, ieri all'Hallenstadion di Zurigo, dove è andata in scena l'assemblea dei soci, l'ultima dopo 167 anni di vita dell'istituto, con una discreta presenza poliziesca a vigilare sui duemila partecipanti. Tutti alla ricerca di risposte sui motivi per cui una banca che appena un anno fa valeva in Borsa 40 miliardi di dollari, sia finita sul binario morto e svenduta per appena tre miliardi ai rivali di sempre. Domande cadute nel vuoto. Perché i dettagli del salvataggio, fortemente voluto dalla Banca nazionale svizzera e dal governo di Berna, restano secretati. Dalla bocca del presidente del Credit, Axel Lehmann, non è uscito uno spiffero: né su chi per primo si fosse rivolto a chi per arginare il disastro, né sulle dinamiche all'origine della fuga dei clienti.
Un silenzio stridente con l'atto di contrizione con cui il banchiere dal cognome che evoca il crac bancario per antonomasia si è scusato «per non essere più riuscito ad arginare la perdita di fiducia che si era accumulata negli anni, e per avervi deluso». Ammissione di colpevolezza, sì, ma non sufficiente per farsi da parte. Lehmann resta nel cda, rieletto assieme ad altri sei componenti il board, nonostante voci importanti - tipo la società di consulenza americana Glass Lewis o il fondo sovrano norvegese - avessero chiesto un repulisti del vertice. Situazione invece cristallizzata per il tempo necessario a perfezionare la liaison con Ubs, dove al timone è tornato Sergio Ermotti. Un abbraccio mortale, poiché il Credit cesserà di esistere come entità autonoma, però difeso: «Fino alla fine, abbiamo lottato duramente per trovare un'alternativa, ma c'erano solo due opzioni: accordo o bancarotta. La scelta fatta ha portato a una soluzione che porta chiarezza, sicurezza e stabilità», ha detto Lehmann, spalleggiato dal ceo dell'istituto svizzero, Ulrich Koerner, secondo cui il collasso del Credit sarebbe stato «catastrofico».
Parole che non hanno comunque convinto i soci presenti in assemblea, con il dente ancor reso ancor più avvelenato dal fatto di non aver potuto mettere becco sulla fusione. L'ascia di guerra non sarà seppellita. Del resto, il fronte ostile alla fusione si sente più forte dopo l'indagine aperta dal procuratore federale svizzero su potenziali violazioni della legge federale svizzera da parte di funzionari governativi, autorità di regolamentazione e alti dirigenti di CS e Ubs. Vincent Kaufmann, ceo di Ethos Foundation, che rappresenta i fondi pensione che comprendono tra il 3% e il 5% degli azionisti di CS, include tra le possibili linee d'azione il recupero di parte delle retribuzioni concesse all'ex dirigenza. Mentre Ethos si aspetta che l'antitrust metta in discussione parte della posizione di mercato di Ubs, i bondholder che si sono visti polverizzare il valore di 17 miliardi di dollari di AT1 hanno invece già dato mandato a uno studio legale per aprire un eventuale contenzioso.
L'ultimo atto è così andato in scena con l'approvazione del bilancio
2022 (7,3 miliardi di perdite), ma il sipario su CS non è ancora calato. Anche perché il tempo delle scelte dolorose non è finito: 36mila dipendenti, sui 122mila complessivi della nuova entità, potrebbero essere tagliati.
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