C'è un'aria, ma un'aria, parafrasando Gaber, che non t'aspetti. È il refolo che s'ingrossa e si fa vento sui mercati finanziari, dove ora si accarezza l'idea di banche centrali meno aggressive. A voler essere diffidenti, trattasi di un cambio di paradigma costruito sulla sabbia, come se l'abbaglio collettivo già preso in agosto con la Fed sul famigerato pivot dei tassi non fosse stato di lezione.
A dar conto dei fatti, il cambio di umore è indotto da tre motivi: la retromarcia di Lizz Truss sul piano fiscale inglese, con incorporato intervento di sostegno a sterlina e Gilt da parte della Bank of England; la decisione della banca centrale australiana di ritoccare verso l'alto di appena di un quarto di punto il costo del denaro; un dato negativo dell'indice Ism manifatturiero Usa. Tanto è bastato ieri per accendere nelle Borse il motore del rialzo. Milano è salita del 3,4% contestualmente a un raffreddamento dello spread Btp-Bund sotto i 230 punti e con il calo dei rendimenti del decennale al 4,1%, mentre l'Eurostox 600 è balzato del 3% e a un'ora dalla chiusura Wall Street guadagnava il 2,5 percento.
Se i mercati hanno fatto i conti senza gli osti delle monete lo sapremo il 27 ottobre, quando tornerà a riunirsi la Bce di Christine Lagarde. Fino a qualche giorno fa, quasi nessuno metteva in discussione un'altra stretta dello 0,75%, tanto dolorosa quanto necessaria per piegare l'inflazione e per non allargare la faglia rispetto alla politica monetaria statunitense. Ora, dopo la doppia manovra della BoE, qualcuno non esclude che anche i falchi di Francoforte abbassino le ali. Anche se quella inglese è stata la mossa della disperazione, un there is not alternative «thatcheriano» per far fronte a una tempesta finanziaria perfetta.
L'eurozona non è ancora al centro di una bufera nonostante le recenti tensioni sui titoli sovrani, ma si muove sul filo del rasoio. Gli stimoli governativi messi in campo per attenuare l'impatto dei rincari, soprattutto di quelli energetici, impattano infatti sui conti pubblici, sono potenzialmente innesco di ulteriore inflazione e, quindi, in aperto conflitto con le mosse restrittive dell'Eurotower. C'è insomma uno iato fra chi - la politica - vuole evitare una recessione severa e chi - la Bce - ha come missione il ripristino della stabilità dei prezzi. Il dilemma si trascina da mesi, e l'Unctad, l'agenzia dell'Onu, lo risolve con la richiesta alle banche centrali di fermare i giri di vite ai tassi e con l'invito ai governi di passare al controllo amministrato dei prezzi. Un colpo di piccone al liberismo.
Come sempre, il boccino resta nelle mani della Fed. Il piano di Jerome Powell è di far salire i tassi, i rendimenti e quindi il dollaro, nella speranza che il biglietto verde sia l'unico rifugio per gli investitori globali. Si tratta però di un'arma a doppio taglio.
In Cina, per esempio, le grandi aziende stanno già vendendo asset in dollari e immobili commerciali (oltre 20 miliardi dal 2019) a un ritmo sempre più allarmante, mentre oggi l'Opec+ potrebbe tagliare di oltre un milione di barili al giorno la produzione di petrolio, visto che la forza del greenback ha contribuito a far scendere le quotazioni del 40% dal picco di giugno.
Ma in un mondo sommerso dai debiti (oltre 300mila miliardi di dollari), a preoccupare sono soprattutto i pericoli di default
nei Paesi emergenti. Così, gli esperti tirano Jay per la giacchetta: senza un dietrofront di Eccles Building sui tassi - ammoniscono - , i mercati mondiali corrono il serio rischio di un collasso sistemico. C'è un'aria...
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