Tutti compatti, senza neppure una smagliatura nella dialettica interna all'istituto: all'unanimità, la Fed ha approvato un altro rialzo dei tassi di tre quarti di punto dopo quello della stessa entità deciso a giugno, collocando il costo del denaro in una forchetta compresa fra il 2,25% e il 2,50%. Mai, a partire dagli anni '80, la banca centrale Usa aveva mostrato un piglio così aggressivo nel rimodulare la politica monetaria.
Oggi come allora, quando sulla plancia di comando c'era Paul Volcker, il nemico da battere è sempre l'inflazione, schizzata oltre il 9%. «È troppo alta - ha detto il capo della Fed, Jerome Powell (in foto) - : è essenziale riportare i prezzi all'obiettivo del 2%. Abbiamo gli strumenti e la determinazione per farlo». Di fronte ai continui rincari, Eccles Building ha incastonato da marzo in poi quattro strette, consapevole dell'effetto collaterale negativo sulla crescita economica. È un rischio forse non del tutto calcolato. Powell minimizza parlando di un rallentamento «necessario» dell'economia causato dalle strette, ma lui e il board dei governatori sembrano puntare a una recessione moderata per tagliare le gambe al carovita. Non è detto che la missione vada in porto. Sebbene il comunicato ufficiale sottolinei come «i guadagni di posti di lavoro siano stati robusti negli ultimi mesi e il tasso di disoccupazione rimasto basso» , si ammette che «i recenti indicatori di spesa e produzione si sono attenuati». Segnali da non sottovalutare, specie se oggi il dato del Pil del secondo trimestre dovesse essere negativo. Considerando la contrazione dell'1,6% fra gennaio e marzo, l'America sarebbe in recessione tecnica. «L'America non è in recessione, perché ci sono troppe aree dell'economia che stanno andando troppo bene. E la Fed non vuole provocarla», ha commentato il capo della banca centrale.
Il punto cruciale non è l'ultimo giro di vite, peraltro ampiamente previsto, ma piuttosto cosa farà l'istituto di Washington nei prossimi mesi. La Fed ha indicato che nuovi irrigidimenti «saranno necessari», però i mercati si aspettano che Powell sollevi un po' il piede dall'acceleratore: la previsione è di un rialzo in settembre non superiore al mezzo punto. Soprattutto, si comincia a ragionare su quando verrà raggiunto il tetto oltre il quale la banca non si spingerà. E il cosiddetto pivot viene collocato fra novembre e dicembre; il che significa che nel primo trimestre del '23 già ci sarebbero spazi di manovra per riprendere a tagliare il costo del denaro. Sull'ipotesi di un altro giro di vite dello 0,75%, Powell si è mantenuto abbottonato: «Potrebbe essere appropriato, a settembre decideremo guardando ai dati».
Per poi aggiungere che a causa degli inasprimenti monetari, prima o poi «probabilmente diventerà appropriato rallentare il ritmo degli aumenti». Parole che Wall Street (+1,2% il Dow Jones, +3,7% il Nasdaq a un'ora dalla chiusura) interpreta come il primo segnale che non passerà molto tempo prima del cambio di rotta.
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