Fatta scomparire ogni residua screziatura da colomba, Jerome Powell si è presentato ieri davanti al Congresso Usa in una veste da falco a tutto tondo. «Gli ultimi dati economici sono stati più forti del previsto, il che suggerisce che il livello finale dei tassi di interesse sarà probabilmente più alto di quanto previsto in precedenza». Attacca così, il numero uno della Federal Reserve, davanti ai senatori accorsi per ascoltarlo. Subita una nota stonata per i mercati: Jay il guardingo, Jay il dosatore di parole, non c'è più. C'è l'uomo risoluto a far piegare la testa all'inflazione, quello che fa coriandoli dei dot plot di dicembre che indicavano al 5,1% il punto terminale oltre il quale il costo del denaro non sarebbe più salito. Scendono le azioni (-1,2% Wall Street a un'ora dalla chiusura, -0,67% Milano), schizzano ai massimi dal 2007 i rendimenti dei T-bond biennali, mentre gli investitori aggiornano al 5,25-5,5% il pivot sui tassi. L'ipotesi è che, rispetto all'attuale forchetta compresa fra il 4,5 e il 4,75%, la banca centrale Usa abbia ancora margine per una stretta complessiva di 125 punti base. Eccles Building potrebbe già decidere nella riunione del 21-22 marzo un giro di vite dello 0,5% (chance salite al 30%) e bissarlo all'inizio di maggio, poiché lo stesso presidente dell'istituto di Washington non esclude un percorso accelerato: «Se la totalità dei dati - spiega - dovesse indicare che è giustificato un inasprimento più rapido, saremmo pronti ad aumentare il ritmo degli aumenti dei tassi».
Parole nette e inequivocabili che sono frutto della frustrazione causata dalla mancata inversione di marcia dell'inflazione dopo ben otto aggiustamenti dei tassi. «Il pieno effetto delle nostre azioni deve ancora mostrarsi. Nonostante questo resta del lavoro da fare», conferma Powell. Cui deve essere andato di traverso il dato sul Pce index di gennaio (+5,4% su base annua) e, in particolare quello della spesa per servizi, con l'esclusione di cibo, energia e alloggi (+4,7%). Qui «ci sono pochi segni di disinflazione», ammette il successore di Janet Yellen, probabilmente pentito per essersi lasciato sfuggire, qualche settimana fa, che il «processo disinflazionistico è iniziato». Un ottimismo prematuro tradotto dai mercati con un war (contro il carovita) is over e con un cospicuo irrobustimento degli indici.
Di fatto, si cementa ancor più l'impressione - quasi una certezza - che la Fed non abbandonerà la postura rigida per tutto il 2023 confidando in una tenuta dell'economia. È la via a senso unico in cui si è infilata anche la Bce. Christine Lagarde ha già dato per scontata la stretta di mezzo punto nel vertice del 16 marzo che porterà i tassi al 3,50%, ma l'ala dura dell'Eurotower preme per incasellare una stretta analoga anche all'inizio di maggio che combacerebbe con le aspettative dei mercati. L'imperativo è lo stesso della Fed: domare i prezzi. Peccato che i calcoli sull'inflazione potrebbero essere stati sbagliati per eccesso, come insegna il caso dell'Olanda che ha sovrastimato il carovita ed è stata costretta alla rettifica dei calcoli. Come è potuto accadere? Semplice: i Paesi Bassi, pur usando la vecchia metodologia, hanno preso in considerazione i contratti di energia nuovi escludendo quelli già in essere che di solito hanno un prezzo minore.
Col risultato di far schizzare l'inflazione nel settembre 2022 al 14,5% contro il 7,6-8,1% ottenuto coi nuovi calcoli. Un vero pasticcio, forse estensibile ad altri Stati, di cui la Bce dovrebbe tener conto per meglio calibrare le proprie mosse.
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