Il processo d’appello contro Foodora, l’azienda di food delivery chiamata in causa da cinque ex rider, si conclude con la condanna dell'azienda, che dovrà risarcire i fattorini, considerati veri e propri dipendenti. Lo scorso aprile in primo grado il tribunale torinese aveva respinto il ricorso. "Forse per cambiare le cose deve scapparci il morto", aveva commentato dopo la sentenza uno degli avvocati dei rider.
I giudici hanno stabilito che i fattorini hanno diritto al trattamento previsto dal contratto collettivo logistica-trasporto merci, comprese ferie, tredicesima ed eventuale malattia. Ma non verranno riassunti, come avevano chiesto nel ricorso. Su questi punti (reintegro e assunzione) anche il giudice di secondo grado ha deciso di respingere le domande. Respinta anche la richiesta di risarcimento per presunte violazioni della privacy, che sarebbero state commesse attraverso la app dello smartphone con cui venivano assegnati di volta in volta gli incarichi (le consegne). Inoltre l’azienda tedesca dovrà riconoscere ai cinque fattorini un terzo delle spese di lite, che complessivamente tra primo e secondo grado ammontano a poco meno di 30 mila euro.
"È una prima risposta a questa giungla di aziende che tentano di eludere le leggi per pagare una miseria i lavoratori, trattandoli come schiavi", ha detto l’avvocato Giulia Druetta. "Il giudice ha equiparato i rider a dei fattorini e quindi anche per loro vale il contratto di lavoro subordinato, con richiamo all’articolo 2 del Jobs Act.
Non si può fissare una retribuzione minima non tenendo conto delle tutele per i lavoratori - ha aggiunto il legale - questa è una sentenza ragionevole, anche se ci sono ancora delle cose da discutere, in primis il licenziamento".
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