Gas e sanzioni, l'Africa ringrazia: "Ruberanno il lavoro all'Italia"

L'allarme delle fonderie (e non solo) dopo le sanzioni alla Russia: "Rischio delocalizzazioni"

Gas e sanzioni, l'Africa ringrazia: "Ruberanno il lavoro all'Italia"

I conti sono presto fatti. "Se inserisco nel bilancio 2021 i costi dell'energia dei primi mesi del 2020, chiudo l'anno con 300mila euro di perdita". Troppi, per le Fonderie Unifond di Concesio, in provincia di Brescia. Le aziende energivore da mesi sono in allerta: tenere acceso il forno con cui fondono l'ottone da trasformare in rubinetti è diventato un salasso. "All'improvviso siamo passati dai 11mila euro di bolletta del gennaio 2021 - dice Massimo Bodei, delle omonime fonderie - agli oltre 33mila del 2022. Cioè da 8 centesimi a 33 centesimi al kilowattora".

I motivi della crisi energetica sono tanti. In principio fu la ripresa economica post pandemia, che ha affamato le aziende di energia. Poi le scelte strategiche della Russia, che ha chiuso i rubinetti provocando un primo rialzo dei costi (sopratutto in Italia e Germania, che producono gran parte della loro corrente bruciando il gas). Infine, la guerra in Ucraina: le sanzioni, e i cattivi rapporti con Mosca, rischiano di gettare il Paese nella crisi energetica. Draghi lo ha detto in Parlamento, ha parlato di razionamenti, "difficoltà nei prossimi inverni", riserve da intaccare, centrali a carbone da riaprire, forse addirittura investimenti sul nucleare. Secondo l'Ispi il costo dell'energia per le imprese italiane nel 2022 potrebbe toccare i 37 miliardi di euro, cinque volte più del 2019 e in crescita pure rispetto ai 21 miliardi del 2021. L'analisi, è bene precisarlo, risaliva al 16 febbrario. Quindi prima dell'invasione russa a Kiev: da quel giorno, il prezzo medio per megawattora è già salito del 307%. Se a questo si aggiunge l'inflazione sulle materie prime (ottone, benzina per i trasporti, resine, ecc ecc) la situazione diventa esplosiva. A rischio ci sarebbe non solo la "crescita" italiana, dopo due anni a singhiozzo causa pandemia, ma anche 500mila posti di lavoro nei settori energivori.

Tra questi, anche le fonderie. Qui arriva l'ottone in lingotti, viene fuso, infilato negli stampi e infine lavorato. Il forno deve restare sempre acceso, 7 giorni su 7, 24 ore al giorno. Le aziende hanno già provato a fare il possibile per restare in piedi: alcuni hanno spento uno dei forni, altri hanno rimandato gli investimenti, oppure chiesto aumenti ai clienti. Altri ancora sono ricorsi alla cassa integrazione o al lavoro notturno (quando l'energia costa meno). Poi ci sono gli interventi dello Stato: crediti d'imposta e contributi alle aziende energiore. "Su un costo di 120mila euro di energia, calcolo che dal governo mi arriveranno 20mila di contributo", calcola Aldo Arici. "Troppo poco". Bisogna anche considerare l'effetto sul mercato delle sanzioni. Migliaia di aziende che importavano e esportavano dalla Russia rischiano di restare tagliate fuori, e così pure i loro fornitori. "Uno dei nostri clienti più grossi produce riscaldamento e vende per il 50% in Russia: quindi sicuramente questo lavoro verrà a mancare e si ripercuote anche su di noi". Tradotto: calo delle commesse. Il rischio alla fine è che si riapra una ferita che si pensava rimarginata. In una parola: delocalizzazione.

Si tratta di un fenomeno già vissuto in passato. Le aziende per tenere il passo della competitività negli anni '90 spostarono la produzione lì dove il costo del lavoro era inferiore. Oggi potrebbe accadere lo stesso, ma per una differenza sul prezzo dell'energia. "In prima fila per rubarci il lavoro c'è la Turchia, grazie alla sua moneta debole - dice Arici - ma anche Algeria e Tunisia". Per il momento sono tranquille, ma se fiutassero lo spiraglio potrebbero portare via la produzione. "Lì i costi dell'energia sono ridicoli rispetto ai nostri, un rapporto uno a dieci: un'azienda che consuma il mio stesso quantitativo mensile, cioè 150mila kwattora, in Algeria ha una bolletta inferiore ai 5mila euro. La nostra sarà intorno ai 60mila. Per un'azienda che fa il bilancio su costo della manodopora e dell'energia significa perdere in competitività". Discorso simile per le fonderie Bodei. "A 50 anni non andremo certo a spostare la produzione all'estero - spiega Giovanni Parecchini, della Fonderia Bodei - però potremmo creare qui una commerciale, insegnare a loro il lavoro e far produrre lì". L'effetto primario sarebbe l'immediato licenziamento degli operai.

Il paradosso è che le commesse ci sarebbero. Tutte le fonderie le confermano: siamo aziende sane. La Unifond, per dire, vanta un portafogli ordini di un milione di euro. Il fatturato nel 2021 era cresciuto del 45%.

Sono state assunte 10 persone in più. L'incognita resta l'energia, che mette tutto in discussione. Il peso dell'energia sul Val è passato dal 20% al 50%. "Se guardiamo il conto economico, dovremmo già chiudere domattina", dice Arici. Oppure delocalizzare.

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