Questo tempo lo vedo infausto. Mi riferisco al tema caldo delle nomine per le grandi aziende controllate dalla mano pubblica. Passaggio obbligato, si dirà. A me quel passaggio rimanda a un tema cruciale, oltremodo preoccupante per chi ha una visione delle cose di impronta liberale. E cioè, il ruolo dello Stato nell'economia e il suo essere soggetto imprenditore che in quanto azionista di riferimento di significative realtà industriale determina il percorso di quelle imprese strategiche per il sistema Paese.
La storia italica certifica che non ha mai funzionato a dovere lo Stato imprenditore: troppo invasivo, assai incline a promuovere figure manageriali più confacenti ad aderenze opache che a inequivocabili requisiti di competenza. Certo, la politica è chiamata a scegliere; tuttavia l'azionista di controllo (appunto lo Stato) è incline ad adottare criteri in molti casi discutibili. Ne deriva il pericoloso deficit culturale che tutto conosciamo: lo Stato imprenditore è ammalato di statalismo. La classica malattia che impedisce di assicurare la piena autonomia gestionale al management chiamato a guidare le controllate. Anziché comportarsi come di norma avviene nel privato, qui si palesa sempre il pericolo della contaminazione, della non piena e totale trasparenza. La mentalità statalista che nel nostro Paese lo Stato imprenditore applica con diffusa regolarità non ha proprio nelle sue corde l'apprezzare il concetto di autonomia gestionale.
Solo una rivoluzione culturale di stampo liberale consentirebbe di operare finalmente quel salto di qualità necessario. Per cui, realizzate le nomine solo su criteri meritocratici, lo Stato fa un passo indietro assicurando così al vertice apicale la piena e totale autonomia gestionale per raggiungere i migliori risultati.
Un passo indietro operativo che certo non deve impedirgli di esercitare la decisiva funzione di controllo. Il nuovo corso favorirà un cambio di passo nel segno della responsabilità verso il cittadino/contribuente? Non resta che attendere.
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