Recentemente Ferruccio de Bortoli si è speso in una interessante analisi per affermare come l'Italia, specie di questi tempi a forte complessità storica, abbia la necessità di dotarsi di imprese più grandi. Ovvero: di dimensioni internazionali e a marcata trazione innovativa.
Il suo pensiero si può condividere anche se, come insegna la storia nostrana, il rapporto fra grandi imprese considerate strategiche e decisori pubblici non sempre (per ricorrere ad un eufemismo) è stato scandito da un incedere virtuoso. Purtroppo sono troppe le commistioni e così ogniqualvolta si tende a richiamare ad un salto di qualità delle grandi imprese per affrontare la competizione dalla porta principale appaiono legittime le perplessità, visto che nella più parte delle occasioni, tali sforzi vengono attivati ricorrendo alla cassa pubblica e pertanto ai quattrini dei cittadini/contribuenti.
Il tornante della storia, come scrive de Bortoli, chiama a scelte importanti, decisive. Ne sono più che convinto ma temo che il sostegno riservato quasi esclusivamente alle grandi realtà imprenditoriali (la più parte con interessi diretti del pubblico. Lui cita tra le altre Snam, Terna, Leonardo, Tim - Open Fiber)) venga a trascurare ancora una volta le piccole e medie imprese. Che, non dimentichiamolo mai, sono oltre il 92% del nostro sistema produttivo. Ecco, allora, che il rilancio dell'Italia non potrà che passare da una radicale mutamento di pensiero che collochi al centro dell'attenzione, in modo definitivo e strategico, le Pmi. L'Italia se perde di vista il suo cuore imprenditoriale è destinata a declino certo. Ho l'impressione che la lezione non l'abbiamo ancora imparata: Pmi in salute significa rinascita economica e sociale del Paese.
La capillarità del sistema delle piccole e medie imprese (soprattutto delle piccole) impatta su tutti i territori. Lasciar dietro la gran parte di esse per sostenere unicamente il percorso di crescita di quelle più innovative avrebbe una ricaduta altamente drammatica. Ce lo possiamo permettere?
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