L'errore è stato uno solo, ma esiziale: guardare con troppa compiacenza i prezzi del gallone di benzina scesi del 10% dal picco di 5 dollari toccato all'inizio dell'estate. Quel calo ha tratto in inganno i mercati, convinti che in agosto l'inflazione si sarebbe ridotta dello 0,1% mensile, la seconda battuta d'arresto dopo quella dello scorso luglio.
Le cifre diffuse ieri dal Bureau of Labor Statistics raccontano però un'altra storia: non solo i prezzi non deflettono, ma mantengono un minaccioso moto ascendente. Se un aumento mensile dello 0,1% ha proiettato il carovita in agosto all'8,3% su base annua, l'indice core (quello che esclude cibo ed energia ed è il più monitorato dalla Federal Reserve) è aumentato di un robusto 0,6% mensile e del 6,3% rispetto a un anno fa. Due docce gelate per Wall Street, dove sono svaniti all'alba delle contrattazioni i sogni di una Fed meno falco sul fronte dei tassi. Un salasso di 500 punti dello Standard&Poor's 500 a pochi minuti dall'avvio della seduta ha infatti subito segnalato lo scarto di umore da parte degli investitori, mentre i rendimenti dei T-Bond biennali, i più sensibili alle oscillazione del costo del denaro, hanno scavalcato il 3,7%. Un mood plumbeo, rimasto poi immutato nel corso della giornata (-3,95% la chiusura di Wall Street, -5,95% Nasdaq), che ha contagiato le Borse europee (-1,3% Milano, -1,5% il Dax), appesantite anche dallo spettro di una recessione in Germania dopo il peggioramento dell'indice Zew sulla fiducia.
«Ci vorrà più tempo e determinazione per far calare l'inflazione», ha commentato a caldo Joe Biden notando comunque «progressi» nella battaglia al caro-prezzi. Di fatto, sfumano le aspettative di una stretta più contenuta, cioè di mezzo punto, nella riunione della banca centrale Usa la prossima settimana. Ora ci si aspetta che Jerome Powell e il board dei governatori mantengano ancora alta la guardia e alzino quindi i tassi dello 0,75%, anche se qualcuno non esclude una stretta di 100 punti base. Del resto, parlando a Jackson Hole, il presidente di Eccles Building aveva chiarito che l'entità della stretta sarebbe dipesa dai dati economici. Il lieve aumento dei disoccupati il mese scorso e il carovita non aiutano la Fed ad assumere una postura meno rigida. Le prospettive legate al percorso della politica monetaria, da qui a fine anno, indicano un costo del denaro sopra il 4% dall'attuale 2,5%. Un livello destinato a rinfocolare i timori di recessione, soprattutto se la Fed spingerà sul pedale della riduzione del proprio bilancio. Secondo SocGen, l'istituto di Washington avrà bisogno di un inasprimento monetario di 900 punti per domare l'inflazione. Di questi, 450 punti dovranno essere assicurati dal livello dei tassi; i restanti saranno a carico del quantitative tightening. Un micidiale drenaggio di liquidità, pari a 3.900 miliardi, tale da mettere in ginocchio i mercati.
Mercati invitati comunque a recitare un bel mea culpa. Nel giro di poco più di un mese è la seconda volta che sbagliano clamorosamente le previsioni. Era già successo il 10 agosto, quando il calo dell'inflazione in luglio aveva convinto tutti che la Fed avesse quasi raggiunto il pivot sui tassi.
E adesso l'abbaglio collettivo preso alla pompa di benzina, quando invece lo sguardo andava rivolto altrove, in particolare all'indice dei generi alimentari (+11,4% su base annua), o a quello degli alloggi (+6,2%). La febbre da carovita si è insomma diffusa ovunque. E ciò significa una sola cosa: la Fed non userà le infradito per scalare l'Everest dei prezzi.
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