Non sarà solo un voto sul nuovo cda quello che gli azionisti di Mediobanca, oggi riuniti in assemblea, dovranno esprimere. Dovranno anche interrogarsi su quale futuro per la loro banca, chiedendo conto ai manager che l'hanno guidata negli ultimi vent'anni. Mercoledì l'amministratore delegato Alberto Nagel ha commentato i risultati dei primi tre mesi del bilancio 2023-24 che, nonostante l'esaltante presentazione, deludono (-29%) nell'attività caratteristica, il corporate e l'investment banking, la sua ragion d'essere. Bene invece le altre attività, che nell'insieme hanno prodotto un utile netto di 351 milioni con una crescita del 34%. Proprio questo è il punto: quali sono le altre attività, le non caratteristiche, che sorreggono il bilancio dell'istituto? Per capire che cosa è oggi Mediobanca è forse utile ricorrere a una semplificazione. Evitando di dilungarci in noiose spiegazioni tecniche, basti dire che i profitti della banca milanese provengono per un 40% dal consolidamento della partecipazione in Generali, per un altro 40% dalle rate del credito al consumo e per il restante 20% dall'attività di banca d'affari e di gestione dei grandi patrimoni, l'attività caratteristica insomma. Dunque, un modello di business molto eterogeneo, che nel tempo ha mortificato l'identità storica dell'istituto fondato da Enrico Cuccia. Un fritto misto, verrebbe da dire, che farebbe rizzare i capelli al Vincenzo Maranghi ricordato nella testimonianza di Fabrizio Palenzona per il decennale della sua scomparsa. Come si può pensare che possa essere sinergica la riscossione allo sportello della rata del prestito-auto con la gestione di patrimoni miliardari pianificata nei salotti ovattati dell'alta finanza? Quanto alle Generali, Maranghi ne aveva regolarizzato la proprietà non per cavarne passivamente gli utili, ma perchè aveva in testa una grande fusione extranazionale, un raddoppio dimensionale affinchè fosse alla pari con i competitor europei, in modo da sconsigliare eventuali appetiti: il confronto con le capitalizzazioni di Allianz (89 miliardi), Zurich (63 miliardi) e Axa (62 miliardi) la dice lunga sugli effetti dell'inerzia che in questi vent'anni ha segnato la gestione della compagnia triestina (29 miliardi) da Piazzetta Cuccia.
Si resta basiti per come è stato dilapidato un patrimonio di prestigio e credibilità che ancora all'inizio del 2000 faceva di Mediobanca un unicum nel panorama italiano. È accaduto di tutto in questi vent'anni in Italia: nella raccolta del risparmio si è imposta Mediolanum e sono nate Banca Fineco, Banca Generali, Azimut; nella gestione dei risparmi si sono rafforzate Eurizon e Anima; ha preso forma definitiva il colosso Intesa Sanpaolo e si è rilanciata, sebbene con qualche tribolazione, Unicredit; per non dire del settore dei pagamenti, con l'esplosione delle carte di credito.
Mediobanca nel frattempo che ha fatto, oltre a vivere di rendita? Di qui a parlare di irrilevanza naturalmente ce ne corre, ma di sicuro il blasone si è appannato nonostante le molte eccellenze che ancora militano nelle sue fila. Nè si può dire che i piccoli azionisti abbiano motivo di lamentela: soprattutto negli ultimi anni hanno goduto di remunerazioni invidiabili. Ma basta questo per giustificare gli stipendi milionari che l'ad Nagel, il direttore generale Francesco Saverio Vinci e il presidente Renato Pagliaro si assegnano ogni anno? Il Wall Street Journal un giorno scrisse che Maranghi era una delle dieci persone con le quali in Italia valeva la pena di fare affari. Scriverebbe la stessa cosa dei manager alla guida di Piazzetta Cuccia oggi? A metà del primo decennio la banca milanese vantava un fondo disponibile di oltre 10 miliardi: che cosa ha impedito ai successori di Maranghi e Cuccia di approfittare della crisi di fine decennio per portarsi a casa una Merrill Lynch, una Goldman Sachs o persino Unicredit, visto il crollo dei prezzi? Ecco, sono queste le domande che andrebbero poste oggi a Nagel, a Vinci e a Pagliaro, in posizioni apicali per quasi due decenni in una logica di autoperpetuazione del comando che non ha impedito di proporre nella lista del cda lo stesso Pagliaro come presidente pur essendo palese la sua non indipendenza (unico caso nel sistema bancario).
Quanto al nuovo cda, solo questa sera si conoscerà la lista dei candidati che gli azionisti dell'istituto avranno deciso di promuovere. Le scommesse vedono vincente la proposta dei manager, la cosiddetta lista del cda. D'altronde, in Piazzetta Cuccia si sono dati un gran daffare per rastrellare titoli in affitto o deleghe eterogestite: sarebbe perciò sorprendente se a prevalere fosse la lista Delfin. E tuttavia appare improprio parlare di déjà vu alludendo all'epilogo che segnò l'assemblea delle Generali un anno e mezzo fa. In quell'occasione lo scontro fu su due liste di maggioranza, entrambe con un proprio presidente e l'amministratore delegato, sicchè la lista allora più votata ha titolo per sentirsi pienamente legittimata in ogni sua decisione. Diverso è il caso della lista di minoranza di Delfin, che non proprone un proprio presidente nè l'amministratore delegato, dimostrando così di accettare le cariche apicali proposte nella lista del cda; sicchè i suoi candidati che siederanno in consiglio (due o cinque) avranno una forza morale ben maggiore quando si tratterà di suggerire nuovi modelli di governance o contestare le scelte d'investimento che di volta in volta finiranno sul tavolo.
Così, grazie a una proposta meno frontista ma più incisiva, non è improprio affermare che Francesco Milleri, che presiede la finanziaria dei Del Vecchio, ha già conquistato una prima vittoria, considerando che così facendo ha scardinato un meccanismo di autoperpetuazione del management che se un tempo poteva essere tollerato, visto il peso di Mediobanca nei destini della grande industria privata italiana, oggi non ha più motivo d'essere.
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