La battaglia per la guida delle Generali non è una scaramuccia tra grandi soci. Mediobanca da una parte, a difendere la sua autorevolezza nel governare gli equilibri del capitalismo italiano; Francesco Gaetano Caltagirone e Leonardo Del Vecchio dall'altra, a pretendere di contare di più in una società dove hanno investito 4 miliardi. In realtà la posta in palio è molto più alta: è in gioco l'autonomia del risparmio nazionale, la capacità del sistema Italia di mantenere all'interno delle mura di casa il controllo del debito pubblico e quindi quello della stabilità finanziaria e politica, leggi lo «spread».
Mercoledì prossimo, 15 dicembre, l'ad delle Generali Philippe Donnet - sostenuto da Mediobanca per il rinnovo al vertice - alzerà il sipario sul piano industriale al 2024. Da quel che si apprende il manager intende mettere al centro il risparmio gestito. Proprio il punto su cui Caltagirone e Del Vecchio - che invece chiedono la sostituzione di Donnet - ritengono che Generali abbia perso in questi anni varie occasioni di crescita, in tandem con Mediobanca. Nel 2016, quando Unicredit cedette il gruppo Pioneer, Generali non partecipò e Piazzetta Cuccia era advisor dei francesi di Amundi, che si aggiudicarono la preda (400 miliardi di masse gestite). Poi ci fu l'occasione di un'offerta per Anima (180 miliardi gestiti). Mentre più recentemente è toccato a Finanza & Futuro, alla cui gara Generali non ha partecipato lasciando la gara a Mediobanca. Che però l'ha persa a favore di Zurich. Nel mezzo c'è poi stato l'episodio di Banca Generali, il gioiello delle gestioni che il gruppo è stato vicino a vendere, un anno fa, proprio a Mediobanca. Operazione fermata nei comitati da Caltagirone e Romolo Bardin (manager di fiducia di Del Vecchio).
Ecco, l'idea condivisa dai due paperoni - ora uniti in un patto parasociale che con Crt arriverà al 18% di Generali - è che il futuro di un Paese superindebitato, ma con un risparmio privato che non ha pari in Europa, dipenderà anche dall'avere il controllo sui fondi. Qui è investito il risparmio nazionale, a sua volta impiegato nei titoli di Stato. E l'unico polmone finanziario internazionale su cui costruire un presidio è Generali, con i suoi 660 miliardi di riserve investite. Non solo: Trieste è anche a sua volta presente in casa altrui - in Francia, in Germania - occupando così una posizione strategica di reciprocità.
Così, per i pattisti, Donnet non può essere il manager giusto, troppo influenzato dagli interessi di Mediobanca nei suoi cinque anni al vertice del Leone. Di qui la loro opposizione alla «lista del cda», il sistema che prevede che la candidatura dei nuovi amministratori sia proposta da quelli uscenti. Proposta appoggiata invece da Piazzetta Cuccia, al punto da aver preso in prestito il 4% circa di titoli Generali solo per poter arrivare oltre il 17% dei diritti di voto nell'assemblea che il 29 aprile dovrà rinnovare il board. Mentre i pattisti presenteranno una lista alternativa.
Da qui a primavera le variabili in gioco saranno diverse, con tante mosse e contromosse delle due parti. E con un possibile arbitro, quale la Consob, già chiamato in causa da Caltagirone, più di un mese fa, a proposito di vari profili della «lista del cda». In proposito, l'ultima mossa è proprio di ieri: le dimissioni dal comitato nomine di Clemente Rebecchini, manager di Mediobanca, sostituito da Roberto Perotti, consigliere indipendente nominato in cda dalla lista dei fondi (Assogestioni). Che così entra anche nel comitato nomine «ad hoc», quello decisivo per le scelte dei componenti e della procedura per arrivare alla «lista del cda».
Tale organo era fino a ieri composto dai tre consiglieri indipendenti Diva Moriani, Alberta Figari e Sabrina Pucci.
Ma ora sale a quattro, con Perotti in un ruolo attivo inedito: essendo espressione dei fondi, tipicamente presenti non per gestire bensì per vigilare, l'economista bocconiano si allontana dallo spirito di Assogestioni. Esponendosi a critiche e polemiche che non mancheranno.
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