Non c'è più una lira: la corsa all'oro dei turchi

A Istanbul si vendono case e si svuotano i conti Il crollo della valuta spaventa le banche estere

Non c'è più una lira: la corsa all'oro dei turchi

Fuga di mezzogiorno. Dalla lira. Al Grand Bazaar di Istanbul, da settimane i negozi dei venditori di oro straripano di clienti. Nel resto del Paese la situazione è più o meno la stessa: in appena 15 giorni, i sudditi di Recep Tayyip Erdogan hanno messo sotto i materassi lingotti per un controvalore di sette miliardi di dollari. Un tesoretto che è andato a rimpinguare riserve auree domestiche già stimate in 5mila tonnellate.

È la scorta salva-vita per chi, nell'ultimo lustro, ha visto praticamente dimezzato il proprio potere d'acquisto a causa del precipitare della moneta locale e già faticava ad assorbire il tracollo del 2018. La picchiata si è intensificata quest'anno, con una svalutazione di quasi il 20% da gennaio, e anche se l'annuncio del ritrovamento di un maxi-giacimento di gas naturale nel Mar Nero (valore 65 miliardi di dollari) ha dato un po' respiro ai rapporti di cambio, nessuno immagina che la lira possa passare dal requiem alla marcia trionfale. I primi a esserne convinti sono gli stessi cittadini turchi. Quelli in fila agli sportelli delle banche per ritirare i risparmi e convertirli in metallo giallo, così come coloro che vendono le automobili e gli appartamenti per lo stesso motivo.

La sfiducia nella capacità del governo di raddrizzare una barca che fa acqua continua a montare come una marea, e si cerca di anticipare il provvedimento con cui il sultano vieterebbe di possedere oro. Tutt'altro che improbabile in una nazione con norme stringenti sui movimenti di capitale e dove Erdogan si è preso anche i galloni da banchiere centrale, esautorando de facto il governatore per imporre una politica suicida perché priva delle più elementari regole monetarie: ha abbassato i tassi con l'intento di contrastare l'inflazione alle stelle (quasi il 12%) e ha prosciugato le riserve valutarie con interventi sul mercato superiori ai 110 miliardi di dollari. Inutilmente: senza almeno un giro di vite robusto al costo del denaro, necessario per ripristinare gli stock e far risalire l'indice di gradimento di popolazione e investitori, oggi la nazione sul Bosforo rischia come minimo, anche a causa della forte dipendenza dalle importazioni, una crisi della bilancia dei pagamenti.

Soprattutto se l'intensità del bank run crescerà nei prossimi giorni e tornerà sui livelli visti fra marzo e maggio, quando i conti erano stati ripuliti dai contanti in monete estere per circa 2 miliardi di dollari. Le alte commissioni sui prelievi imposte dalle banche non sono finora servite da deterrente: meglio pagare qualcosa in più per l'uscita, piuttosto che sopportare rendimenti negativi per colpa del carovita galoppante. Ma il mondo del credito non è scosso solo per la ritirata dei risparmiatori.

È il profondo malessere dell'economia turca, peggiorato dal Covid-19 e dal conseguente crollo di turisti stranieri e delle loro rimesse, a preoccupare gli istituti europei più esposti. Secondo i calcoli della Banca dei regolamenti internazionali, Spagna, Francia, Italia e Regno Unito hanno un'esposizione stimata di circa 118 miliardi di euro, di cui 61 miliardi in carico a Bbva, 24 a Bnp Paribas, 21 a Unicredit e 11 a Hsbc.

Per ora c'è chi, come System Denim, un'azienda che produce abiti per Zara e Diesel, ha deciso di riconvertire i suoi prestiti in euro al 4% in lire al 10% per non assumersi altri rischi di cambio. Ma molte altre aziende potrebbero essere già arrivate al capolinea della bancarotta.

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