Due volte sull’altare, due volte nella polvere. A Franco Bernabè, presidente esecutivo dimissionario di Telecom Italia, raffinato e caustico manager altoatesino, è toccato il destino di essere seduto due volte sullo stesso trono, quello di Telecom, e due volte da quel trono di essere caduto. Oggi ha, infatti, rassegnato le dimissioni lasciando (per il momento) la direzione del gruppo al vice presidente Aldo Minucci. Consigliere esecutivo non indipendente e presidente del Comitato esecutivo, Bernabè possiede 468mila azioni ordinarie e 480mila azioni risparmio (di cui 30mila indirettamente).
Nato a Vipiteno, 65 anni, figlio di ferroviere, per seguire il padre fa le elementari a Innsbruck, dove impara il tedesco, le medie a Torino, dove studia francese, fa parte del liceo in Oregon, Stati Uniti, dove conquista anche l’inglese. Giovane studioso brillante, già temprato alle difficoltà, con un’impostazione open mind, si laurea in Economia a Torino. Qui viene notato e "cresciuto" dal professor Franco Reviglio, ministro socialista. Dopo una breve parentesi da ricercatore e senior economist all’Ocse di Parigi, entra all’ufficio studi Fiat e poi fa il salto in Eni. Qui, da enfant prodige e sotto gli occhi benevoli di Giuliano Amato e Francesco Cossiga, fa una folgorante carriera che lo porta fino alla poltrona di ad, su cui siede in una fase delicatissima: dal 1992 al 1998. Nel pieno della bufera di Tangentopoli, conduce la ristrutturazione e la privatizzazione del gruppo petrolifero. Il suo successo è tale che nel 1998 viene scelto come ad di un altro scottante colosso: Telecom. La società di telefonia è stata appena privatizzata sotto la presidenza di Guido Rossi e il governo Prodi, ma il sogno di affidarla a una cordata italiana non si è concretizzato (il ’nocciolinò duro, con capofila gli Agnelli, detiene solo il 6,62% delle azioni, troppo fragile). Bernabè ha il compito di ristrutturare anche questo gruppo, ma la sua impresa dura appena quattro mesi. A giocargli il colpo fatale è il suo "no" secco all’Opa ostile lanciata da Colannino di Omnitel con gli altri "capitani coraggiosi" alla Gnutti, con il beneplacito del governo D’Alema. L’austero Bernabè è contrario, considera "lacunoso" il piano (un’opa a debito, dove i 61 mila miliardi di vecchie lire necessari per la scalata sono prestati dalle banche), ma viene disarcionato. È il febbraio 1999 quando il manager deve dimettersi. Prima però, nel salutare i dipendenti, dice: "Cari politici, state lasciando che la società sia appesantita da una montagna di debiti da cui non si riavrà più". Bernabè allora si mette in proprio e investe nel settore delle telecomunicazioni. Fino a dicembre 2007, quando il "sistema", con un accordo tra Bazoli e Geronzi, lo richiama come ad di Telecom. Ma prima ancora alla guida della società, dopo i Colaninno, era arrivato Tronchetti Provera, e i debiti affossano ogni speranza di rilancio della compagnia. Da qui l’ingresso delle banche affiancate dagli spagnoli di Telefonica. Il richiamato Bernabè lavora, riorganizza, ad aprile 2011 diventa presidente esecutivo di Telecom. Fino all’ultimo capitolo, quando punta allo scorporo della rete e si oppone (ancora) a un eccessivo alleggerimento degli investimenti esteri, cioè in Argentina e in Brasile, chiede una "necessaria ricapitalizzazione". Ma i soci italiani ancora una volta la pensano in modo diverso.
E anzichè ricapitalizzare, il 24 settembre scorso diluiscono la loro quota cedendo a Telefonica il controllo di Telco, la holding che ha in pancia il 22,4% di Telecom. Il 25 settembre Bernabè dice di aver appreso dell’operazione ’dai comunicatì. Da quel giorno le sue dimissioni diventano già una certezza.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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