A metà dello scorso mese di gennaio, cioè a una manciata di giorni dall'insediamento alla Casa Bianca di Donald Trump, il Messico viveva una crisi valutaria ben peggiore di quella subita un anno prima a causa del calo dei prezzi del petrolio. Persa la scommessa su un'affermazione di Hillary Clinton, in poco più di due mesi il peso era crollato: ce ne volevano ben 22 per acquistare un solo dollaro, contro i circa 18 del novembre 2016. Un bel guaio, per un Paese economicamente già debole, essere messo spalle al muro dalla retorica protezionistica del nuovo presidente Usa. Erano i giorni in cui il cipiglio trumpiano da custode supremo degli interessi nazionali si esplicitava nello slogan «America First», il frullatore che faceva poltiglia di accordi commerciali multilaterali vecchi di decenni e serviva un centrifugato di gabelle doganali old style. Roba da «Non ci resta che piangere» («Chi siete? Cosa portate? Sì, ma quanti siete? Un fiorino! ») alquanto indigesta per il Messico, direttamente investito dal tornado della Trumponomics che arrivava a mettere in discussione il Nafta, l'intesa per il libero scambio con Usa e Canada, e ventilava l'introduzione di dazi sulle merci messicane del 35%. Insomma: giorni neri per il Paese centro-americano, culminati con il bye-bye di Ford a Hermosillo, la città nel nord-ovest messicano dove avrebbe dovuto investire 1,6 miliardi per una nuova fabbrica di auto elettriche e a guida autonoma.
Di fronte all'insostenibile leggerezza del peso, il Banco de México si era calato l'elmetto sulla testa preparandosi a una lunga guerra di trincea da combattere a colpi di rialzi dei tassi e attingendo alle riserve di valuta straniera, soprattutto quelle in dollari. A un certo punto, però, il Mario Draghi col sombrero ha smesso di intervenire. Non serviva più: l'emorragia si era arrestata. Già verso la fine di febbraio, il cambio peso-dollaro era infatti tornato a 20 a 1. Poi, la discesa non si è più interrotta, fino a punto che i rapporti di forza sono tornati a essere ora quelli dello scorso novembre. Un riequilibrio prodigioso, reso possibile da tutte le smorzate che Trump ha dato, durante questi suoi primi mesi di presidenza, al programma elettorale. Dr. Jeckill e Mr. Hide alla Casa Bianca. Di introdurre dazi, il tycoon non ne parla più. E pare che l'argomento sia stato cancellato dall'agenda delle priorità. Così come la rottamazione del Nafta, che Trump considerava un accordo a solo vantaggio del Messico. Il nuovo orientamento è decisamente soft, con cambiamenti marginali all'intesa che il segretario al Commercio, Wilbur Ross, dovrebbe presto sottoporre al Congresso.
Senza pretesa di far leva sul disavanzo commerciale Usa verso il Messico. Del resto, altre sono le urgenze della Casa Bianca. A cominciare dall'inedita liaison con la Cina, non più manipolatrice dello yuan, ma alleato prezioso contro la Corea del Nord. I muri di confine possono attendere.
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