Mi sudano le mani, quando si spalanca davanti a me la porta della stanza dove viene praticata la terapia. Indosso indegnamente un camice bianco. Un travestimento che farebbe sorridere mia moglie, di professione fa il chirurgo. Infatti, a differenza di un vero medico giro la testa dall’altra parte quando mi fanno un semplice prelievo del sangue, la sola parola dentista mi crea panico più di un film di Dario Argento e quelle rare volte che mi sono ritrovato, mio malgrado, sdraiato su un lettino operatorio credo d’essere svenuto prima ancora che l’anestesia facesse effetto. Insomma, diciamo – a voler parlar bene di me - che non sono un duro.
Comunque, ora, sono qui. Confesso: impaurito ed emozionato. Eppure maledettamente curioso di sfidare un falso mito fatto di leggende drammatiche, terrificanti e, allo stesso tempo, una serie di luoghi comuni imbottiti come panini di ideologie. Da Basaglia fino ai gulag, nel mezzo migliaia di parole inutili.
Ma ora sono qui, infiltrato in una sala dove intorno a un letto un’équipe di psichiatri, anestesisti e tecnici si sta preparando a salvare un omone di una cinquantina d’anni che da troppo soffre di una forte depressione che alcun tipo di farmaco è riuscito mai a guarire. È davanti a me, lo sguardo perso, quasi incurante di quanto gli sta accadendo attorno. Sono anni che vive il suo male: condannato al dolore, all’apatia e alla solitudine. Ma soprattutto all’autodistruzione. Come se gli fosse negata qualsiasi altra possibilità, vede ormai la fine di questa sofferenza nell’unico tragico gesto che potrebbe liberarlo: il suicidio. Se la parola può farvi meno effetto, chiamatela voglia di eutanasia. Sono solo giochi di parole, l’effetto è la morte.
Mentre le mani dei medici lo rassicurano, carezzandolo come si fa con un bambino agitato, l’anestesista lo prepara a chiudere gli occhi, a lasciarsi abbandonare al sonno chimico. Ma lui soffre, non per quanto gli sta accadendo intorno. Non c’è nulla di allarmante, potrebbe apparire un paradosso, Ma l’ambiente è soft, siamo in una clinica e non in un salone di bellezza, ma non c’è nulla che possa procurare ansia.
No, l’omone sdraiato sul lettino della terapia, soffre per quanto sente dentro, per il suo male. E le ultime parole che biascica prima di perdersi nell’anestesia sono di dolore. Parole di impotenza davanti alla propria disperazione, a quella maledetta depressione che non lo lascia un istante e lo azzanna come un cane rabbioso. Chi non l’ha provata mica può capire. La reazione dei più stupidi (e sono molti più di quanti si possa immaginare) è disarmante: ma dai, reagisci! Come dire a un malato terminale: non lasciarti andare. E a gente così, come lo spieghi l’elettroshock? Come fai a far capire che dietro quella scossa c’è la vita? L’alternativa è la morte.
Ho sfidato il mio coraggio per questo, per tentare di comprendere. E il mio cuore, ora, batte forte. Sono lì, in quella stanza, tra monitor che mi risultano incomprensibili, tra cavi che corrono intorno al letto, tra mani che si muovono lentamente e sapientemente intorno al malato, sono qui dicevo, unicamente per curiosità. Voglio vedere che cos’è veramente l’elettroshock. Per tentare di decifrare qual è la verità e dove comincia la leggenda, infarcita di racconti terrificanti, dove si spinge la medicina o se davvero quella è la stanza degli orrori che sciocche ideologie e, di conseguenza, pellicole impressionanti ci hanno raccontato con le loro immagini.
Chi non ricorda le sequenze terrificanti e coinvolgenti del film «Qualcuno volò sul nido del cuculo» e l’espressione ebete di Jack Nicholson folgorato da una scarica al cervello? E chi non ha mai sentito raccontare i primi esperimenti scientifici all’inizio del secolo scorso, con i pazienti legati da cinghie di cuoio alle barelle e le gambe e le braccia che si fratturavano strapazzate dalle scosse elettriche?
So, ho letto, ho perfino cercato di studiare che cos’è oggi l’elettroshock. Ho avuto la fortuna d’avere un grande amico psichiatra che ho considerato come un secondo padre. E che - finché è rimasto in vita - mi ha spiegato quanto la scienza sia corsa in avanti seppure in un deserto di misteri che è il cervello dell’uomo e milioni di quei misteri sono ancora inspiegabili. E mi ha parlato per ore, il mio amico Augusto Guida, uno dei padri della psichiatria in Italia, dell’evoluzione di questa terapia – un tempo praticata quasi di nascosto - che ora è in grado di salvare delle vite umane, di strappare dei malati al suicidio certo, e della possibilità di ridare loro una vita normale.
Già, ma ora sono qui dentro, in questa stanza. Ora ho davanti a me quell’omone disperato che dorme assistito dall’anestesista, i monitor che lanciano i loro segnali su freddi schermi verdi e una psichiatra pronta con gli elettrodi tra le mani. Eccolo, l’elettroshock. Una scossa alle tempie, tre secondi esatti scanditi da un cronometro. Sul volto del paziente solo una smorfia. E la sua mano destra, imbrigliata da legacci di gomma, che inizia a tremare. Un fremito forte. Mi impressiona. Ma subito mi spiegano che è quello il segnale, l’elettroshock sta facendo il proprio lavoro, ha effetto: più lunga sarà la reazione, più efficace sarà stata la terapia. E gli psichiatri accompagnano i secondi che passano – un count down da Cape Canaveral - scandendo il tempo senza nascondere la propria soddisfazione: trentacinque, trentasette, dai ancora – pare implorare, la psichiatra -, trentanove. Quaranta! È il piccolo gridolino che segnala l’ottimo esito dell’intervento.
La mano del paziente ora non trema più. Le dita si rilassano lentamente. È già tutto finito, una manciata di minuti. E anche l’anestesia comincia ad esaurire il proprio effetto. Qualche domanda, lo chiamano per nome, pian pianino risponde, si sta riprendendo. E la prima frase che dice, mi commuove: «Sto bene».
Io che ovviamente non ho avuto alcun merito, esco da quella stanza orgoglioso. Come se avessi avuto una piccola parte, quella ininfluente di uno spettatore, davanti a un miracolo. E mentre mi sfilo un camice che per nulla mi appartiene, e passeggio nel lungo corridoio, silenzioso, ovattato della clinica, mi chiedo perché c’è ancora chi si batte contro l’elettroshock e agita questa terapia scientifica, che dà risultati provati e clinicamente indiscutibili, come un mostro da abbattere, come un nemico da sconfiggere.
Certo, come sempre, nelle critiche c’è del vero. Ma le accuse in questo caso sono anacronistiche: come se il tempo si fosse fermato al primo esperimento, datato 1938, pioniere il professor Cerletti, che la inventò, quando l’anestesia ancora non era in grado di supportare e «annullare» la potenza di quella scossa elettrica da 220 volt. Una tortura, allora, pur se fatta a fin di bene. Ma, ora, 2008, l’elettroshock è l’ultimo rimedio al male del secolo: la depressione. Una terapia senza rischi che entra in scena solo quando la chimica s’arrende, non dà risultati. Solo in Italia, dicono le statistiche, ne soffrono dieci italiani ogni mille. Percentuali sommarie perché, purtroppo, molti di quelli che ne sono affetti s’affidano all’impreparazione di molti medici di base. Altri, disgraziatamente, si lanciano con l’automobile fuori strada, oppure direttamente dal balcone. Quando, addirittura, in un gesto per noi di inspiegabile affetto, sterminano la famiglia prima di togliersi la vita.
E davanti a questo c’è ancora chi non ha capito che cosa sia la depressione. E non accetta che quando la farmacologia non riesce a guarire rimane la disperata frontiera dell’elettroshock. Una parola che potrà anche far paura, ma che vuole dire salvezza, vuole dire vita.
Nicola Forcignanò
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