Elezioni europee: senza preferenze non è democrazia

Il confronto sarà di quelli che non si dimenticano perché mai come oggi la posta in gioco è altissima e riguarda l’idea che ciascuno ha della democrazia politica e della selezione della sua classe dirigente.
Ci riferiamo alla preannunciata riforma della legge elettorale europea. La maggioranza propone una soglia di sbarramento al 5% e l’abolizione della preferenza. Le ragioni addotte per questa scelta che vede contrarie tutte le opposizioni sono due: il contrasto alla frammentazione partitica e il costo sproporzionato di un sistema con le preferenze che esporrebbe i candidati a mille tentazioni. Due piccole verità come queste non giustificano, però, una «nomina» anche dei parlamentari europei dopo quella dei deputati e dei senatori della Repubblica. In ogni vicenda politica, infatti, c’è una gerarchia di valori che deve essere rispettata se non ci si vuole avvitare in una spirale dirigistica in cui la classe dirigente del Paese viene scelta per cooptazione senza che il cittadino elettore possa mai metterci bocca.
Se dovesse passare ancora una volta l’abolizione della preferenza perché mai questo sistema papalino non dovrebbe valere anche un domani per i consiglieri comunali, provinciali e regionali? Non è una provocazione la nostra ma quando si teorizza che per fini superiori è bene non far scegliere i rappresentanti nelle istituzioni dagli elettori si sa come si comincia ma non si sa dove si finisce. Sappiamo bene che in moltissimi Paesi la preferenza nelle elezioni europee non c’è. In quei Paesi però, c’è una vita interna democratica nelle organizzazioni politiche che viene tutelata dalla legge e consente di fare una lista espressione dell’intero partito e non partorita in solitudine dalla fertile mente del segretario politico di turno.
In Italia, da sessant’anni non si riesce a trasformare in legge ordinaria quel principio costituzionale contenuto nell’art. 49 secondo cui «i partiti concorrono alla vita politica del Paese con metodo democratico». E, allora, se il metodo democratico non c’è nei partiti e viene tolto con l’abolizione delle preferenze anche dalle istituzioni, che Paese stiamo mai costruendo?
Per quanto riguarda poi il costo, per limitarlo sarebbe saggio introdurre almeno due preferenze per evitare che chi ha notevoli risorse, con la preferenza unica che ha generato la vera esplosione della spesa elettorale, possa impedire anche a degli outsider con pochi quattrini di poter essere eletti.
D’altro canto il vero problema culturale prima ancora che politico è di rendere trasparenti i contributi elettorali come avviene in quasi tutte le grandi democrazie occidentali e in particolare in quelle anglosassoni. Di gran lunga meglio, dunque, una selezione darwiniana fatta dagli elettori con le preferenze piuttosto che una grigia cooptazione che fa crescere una cortigianeria e con essa inevitabilmente la mediocrità sguarnendo così i territori da ogni punto di riferimento politico.
Per quanto riguarda infine la soglia del 5%, in Europa non c’è un governo eletto dal Parlamento e pertanto essa può scendere senza alcuna conseguenza al di sotto del 4%, l’attuale limite vigente per le elezioni nazionali. Il vero contrasto alla frantumazione dei partiti si fa con la politica e con la democrazia nei grandi partiti prima ancora che con le tecnicalità di una legge elettorale. Detto questo, però, in una fase di profondo riassetto della politica italiana può anche essere comprensibile che i partiti nel rifondarsi abbiano l’esigenza di mandare in Europa un gruppo di rappresentanti con competenze specifiche.

Sarebbe sufficiente, allora, trovare una tecnicalità capace di coniugare questa esigenza dei partiti con quella della scelta degli elettori che non può non essere larghissimamente prevalente per riprendere il bandolo di una vita democratica che si sta pericolosamente smarrendo.
Geronimo

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