Airuno (Lecco) - L'anticamera del cielo, quel Cielo che accoglierà presto Eluana, ha un colore giallo pastello.
Gli infermieri, una trentina tra volontari e professionali, camminano in punta di piedi. Entrano nelle camere dispensando la soavità di gesti rapidi ed esperti. Sussurrano le parole di quel conforto che somiglia più all'amicizia e non alla stucchevole pietà, che ha radici nel vuoto. Una famigliola che abbassa gli occhi quando incrocia i miei, e tre giovani, più in là. In disparte. Gli amici degli amici, quelli del bar La Pergola, di Airuno, che stanno lì, con le mani in mano, nella saletta antistante una delle dodici stanze. A snocciolare il rosario delle domande intime che ci si pongono quando la vita, la vita di una persona cui si vuol bene, come al ragazzo che giocava a pallone con loro, diventa all'improvviso solo qualcosa di immobile. Lì, su un letto. In attesa di venir traghettata dall'altra parte. Hospice «il Nespolo»: quello che sarà l'ultimo domicilio di Eluana. Senza più fermate intermedie. Né polemiche. Né corsi e ricorsi.
Il grigio cancello elettrico che si schiude solo al passaggio delle ambulanze. Il portone a volta, di un bel legno vero. Sul citofono quattro opzioni per una stessa scelta che galleggia nell'angoscia: reception, sala infermieri, studio medico, uffici. Ci sono i gerani rossi alle finestre e, tutt'intorno, la leggerezza contagiosa di un silenzio ovattato. Il silenzio che meritano gli ospiti di riguardo. Perché sono tutti importanti, di riguardo, gli ospiti di quest'albergo dove si va a morire. Perché quando arrivano ad un tale capolinea sono tutti uguali. Con o senza quel sondino che fa la differenza per la legge. Ma che in fondo, per l'umanità sofferente, è soltanto un apostrofo per far finta di agganciarsi al nulla.
I copriletto a fiori, le tende blu del cielo più sereno, le travi in legno a vista. L'arredamento austero ma di classe. Scelto e abbinato con intelligenza. Che fa venir alla mente quei monasteri, dove si soggiorna per ritrovar se stessi. La verità è che un restauro sapiente, fortissimamente voluto, sei anni fa, dall'«Associazione Fabio Sassi» ha cambiato pelle alla vecchia cascina che stava andando a pezzi. Per arrivare all'Hospice «il Nespolo» c'è una strada stretta, sempre più stretta, via San Francesco, che si arrampica nel cuore di questo paesino di duemilaseicento anime fin su, alla Chiesa parrocchiale. Ecco, proprio all'ombra della Chiesa, si distende la sagoma dell'Hospice.
Due piani, il viottolo di sassi che attraversa il prato al centro della corte. E dodici camere. Tutte occupate. È completo l'albergo dove si va a morire. E fuori, al portone, c'è la lista d'attesa. Purtroppo. Ognuno con la sua storia di disperazione, ognuno con le sue domande. Anche ieri hanno telefonato e hanno bussato al portone di legno arroventato dal sole di luglio. E così la nuova segretaria, al suo primo turno («pensi un po' con quale stato d'animo comincio il mio tirocinio qui») ha dovuto dire i suoi primi «no, mi spiace, non c'è posto». Allarga le braccia il dottor Mauro Marinari, ex primario della Rianimazione all'ospedale di Merate, che la sua scelta forte e tosta, quella di diventare direttore sanitario dell'Hospice, l'ha già fatta quattro anni fa: «Anche Eluana dovrà aspettare un po'». Sotto l'ala più alta del «Nespolo» c'è una piccola grotta con Bernadette e la Madonnina di Lourdes. La signora Anna, che abita più giù in compagnia di un barboncino bianco un po' isterico, si arrampica ogni giorno per far brillare sempre le fiammelle di due grandi ceri rossi.
«Stamattina ho pensato a Eluana mentre li accendevo, mi sembrava di accarezzarla. Ho visto il suo sorriso sui giornali e non ci ho dormito la notte».
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