Luca Testoni
Non è una novità che il pubblico italiano nutra una particolare predilezione per la nuova generazione di cantanti jazz-pop.
Gli eredi del terzo millennio delle indimenticabili voci di Frank Sinatra e Nat King Cole, per intenderci. Quelli a cui viene naturale dare del tu allo swing. Cantanti come il crooner italo-canadese Michael Bublé, che stravende manco fosse una popstar, e il fascinoso talento a stelle e strisce Peter Cincotti. O, ancora, come il multistrumentista britannico Jamie Cullum, atteso stasera alla prova dal vivo al Rolling Stone di corso XXII marzo 32 (ore 21, ingresso 25 euro). Ventisei anni, nato nellEssex ma londinese dadozione, Cullum, alla sua première live nel capoluogo lombardo, pare il più dotato del sopra citato «trio delle meraviglie».
La formula del successo del piccolo ragazzo prodigio dal look sbarazzino sta nella sua accentuata versatilità: è un buon pianista e cantante di jazz che però sa suonare anche roba di Stevie Wonder, Prince e Marvin Gaye. Interpreta con passione e talento limmortale canzoniere di Cole Porter, cita Errol Garner e Dave Brubeck, ma ama in egual misura il compianto Jeff Buckley e i Radiohead, Beck e i Neptunes. Insomma, allinglesino tutto pepe, che si è fatto le ossa suonando nei pianobar, sulle navi da crociera e alle feste di matrimonio e che ha fatto il botto con la cover di The wind cries Mary di Jimi Hendrix, piace giostrare in estrema libertà. «Per creare sempre qualcosa di nuovo, originale e fondamentalmente accessibile a tutti», assicura lui. E con Catching tales, lalbum numero tre in carriera, uscito lo scorso autunno (il precedente Twentysomething ha venduto oltre due milioni e mezzo di copie ed è il best seller di sempre tra i dischi degli artisti jazz dOltremanica), ha ribadito il concetto.
Non a caso, tra i momenti più gradevoli dellultimo lavoro pubblicato dalla Universal (la major discografica con cui ha firmato un mega-contratto di un milione di sterline...) vanno inserite le riletture di I only have eyes for you dei Flamingos, una hit pop che risale alla fine degli anni Cinquanta, e Catch the sun dei pop-rocker connazionali (e contemporanei) Doves. Senza dimenticare le sorprendenti collaborazioni con il produttore hip-hop Dan The Automator Nakamura dei Gorillaz per Get your way ed Ed Harcourt per il blues Back to the ground.
«Nel momento in cui suoni standard, la gente stabilisce che tu sei un crooner e viene ad ascoltarti in giacca e cravatta. In effetti, cè una parte di me che vuole suonare i classici del jazz e dello swing e cantare benissimo. Poi però cè un altro Jamie che vuole distruggere il piano e suonare quanto più forte è possibile», ha provato a spiegare la propria dicotomia (di approccio e di stile) lenfant terribile del jazz-pop britannico. Questultimo - e il che non guasta - una volta sul palco sa poi trasformarsi in un godibilissimo e imprevedibile intrattenitore.
E tra una chiacchiera e laltra, un bel po di cover pronte a cambiare a seconda dallumore e del locale in cui si esibisce e anche qualche sorso di birra, linglese dimostra che forse è ancora possibile sovvertire regole e riti della performance (quasi) jazz.
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