Allarme giornalisti in carcere: in Turchia sono 76

Il Paese di Erdogan ha il record dei cronisti dietro le sbarre, arrestati spesso con il pretesto della lotta al terrorismo

Il direttore del Giornale Alessandro Sallusti rischia il carcere per una causa di diffamazione e le proteste per il suo caso hanno oltrepassato i confini nazionali. Ma c’è una nazione geograficamente e politicamente molto vicina all’Europa che detiene il record mondiale di giornalisti dietro le sbarre: in Turchia sono 76. Più che in Cina, Iran ed Eritrea, stati considerati più repressivi. A lanciare l’allarme è Federazione europea dei giornalisti (Fej), che dedica la Giornata europea per la difesa del giornalismo, in programma il 5 novembre e dal titolo “In piedi con il giornalismo”, proprio alla solidarietà verso i cronisti turchi detenuti in virtù di una legge anti terrorismo.

In queste ore il premier Recep Tayyip Erdogan ha celebrato trionfalmente ad Ankara i primi dieci anni di governo del suo partito, l’Akp, con l’intenzione di restare ai vertici del Paese per altri dieci anni, fino al centenario della Repubblica nel 2023. Ma è chiaro che questioni come quella dei diritti umani pesano sul bilancio del suo mandato. La Fej, che rappresenta oltre 310mila giornalisti di 30 paesi, ha inviato una lettera all’ambasciatore turco presso l’Unione europea Mehmet Hakan Olkay per “sollecitare il governo a rilasciare tutti i cronisti incarcerati che sono trattenuti sulla base delle loro attività giornalistica e a mettere fine all’uso delle leggi anti terrorismo contro i giornalisti, in violazione dell’articolo 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo”.

Secondo un’altra ong con sede a New York, il Comitato per la protezione dei giornalisti (Cpj), in Turchia è in atto “una delle più vaste operazioni di repressione della libertà di stampa della storia recente”. Dei 76 giornalisti in carcere, almeno 61 “sono detenuti in diretto rapporto con i lavori pubblicati o con la loro attività di ricerca di informazioni”. La condizione di altri 15 cronisti risulta meno chiara. La ong non denuncia solo le pene inflitte ai giornalisti con il pretesto della lotta al terrorismo, ma anche “tattiche di pressione per convincerli all’autocensura”. Il rapporto del Cpj rileva inoltre che il 70 per cento dei cronisti in prigione sono sospettati di legami con il Pkk, il Partito dei lavoratori del Kurdistan che pratica la lotta armata per l’indipendenza curda.

I rimanenti sono indagati per la presunta appartenenza a organizzazioni clandestine o per la presunta partecipazione a progetti di colpo di Stato. Più di tre quarti dei cronisti dietro le sbarre infine sono in attesa di giudizio, anche da diversi anni. 

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