Un disperato messaggio di richiesta d'aiuto nella bottiglia. Solo che al posto della bottiglia, in questo caso, c'erano un paio di jeans nella cui tasca si trovava un cartoncino: "SOS! SOS! SOS!", e sotto una scritta in caratteri cinesi, con una frase inquietante: "Ci trattano come schiavi, salvateci". A fare l'incredibile scoperta, come riporta oggi Repubblica, è stata una giovane di Belfast, nell'Irlanda del Nord. Tre anni fa aveva acquistato un paio di jeans nella catena Primark. Per qualche motivo non li aveva mai indossati. Quando finalmente si è decisa a farlo, l'amara scoperta.
Karen Wisinska, questo è il nome della giovane donna che ha trovato il biglietto nella tasca dei pantaloni, ovviamente non ha capito cosa vi fosse scritto. Tranne la richiesta d'aiuto (SOS!) ripetuta tre volte. Ma poteva trattarsi di uno scherzo. Così ha fatto una foto e l'ha postata su Facebook, chiedendo agli amici di aiutarla a decifrare il testo. Dopo un po' di tempo le è arrivata una prima traduzione sommaria: a scrivere il testo doveva essere stato qualcuno ridotto in schiavitù in una prigione cinese. Così Karen ha contattato Amnesty International. A scrivere il biglietto e a riporlo con cura nella tasca dei pantaloni potrebbe essere stato qualcuno rinchiuso in un laogai, uno dei tanti campi di lavoro forzato che esistono nella Repubblica popolare cinese. "Siamo detenuti nella prigione Xiangnan di Hubei, in Cina", si legge nel biglietto. "Da molto tempo lavoriamo in carcere per produrre abbigliamento per l'esportazione. Ci fanno fare turni di 15 ore al giorno. Quello che ci danno da mangiare è perfino peggio di quello che si darebbe a un cane o a un maiale. Siamo tenuti ai lavori forzati come animali, usati come buoi o cavalli. Chiediamo alla comunità internazionale di condannare la CIna per questo trattamento disumano".
Non si sa se la storia sia vera. Potrebbe trattarsi di una trovata per riportare l'attenzione dei giornali sull'esistenza dei laogai, su cui Pechino ovviamente ha tutto l'interesse a mantenere il silenzio. La catena Primark ha subito aperto un'inchiesta, non nascondendo di trovare strano il fatto che la scoperta sia stata fatta tre anni dopo l'acquisto dei pantaloni. In passato Primark è rimasta coinvolta, insieme ad altre marche d'abbigliamento, nel crollo di uno stabilimento tessile in Bangladesh, in cui persero la vita più di mille persone. L'indennizzo che ha pagato ai familiari delle vittime è pari a circa 12 milioni di euro.
Amnesty preferisce la cautela: "Storia molto difficile da verificare", dice a Repubblica Gianni Rufini, direttore generale di Amnesty International Italia. Anche se riconosce che in molti paesi dell'Asia, dell'America latina e dell'Africa esistono lavoratori-schiavi. E i loro prodotti finiscono sui mercati e nei negozi di tutto il mondo.
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