Un confronto militare che deve durare poco per l'interesse di molti

La crisi serve a Netanyahu per mostrarsi duro agli elettori, all'Anp per disfarsi dei nemici di Hamas e al Cairo per fare il forte con Gerusalemme

Un confronto militare che deve durare poco per l'interesse di molti

Difficile prevedere quali saranno le ricadute a medio e lungo termine della nuova battaglia fra Israele e i palestinesi a Gaza. Nell'immediato è possibile registrare chi guadagna o perde in questa prima fase del conflitto. Fare un primo bilancio dei possibili guadagni e perdite per gli stati interessati.
L'Egitto fa la voce grossa ritirando il suo ambasciatore da Tel Aviv e minacciando di violare gli impegni presi con la firma del trattato di pace con Israele inviando truppe nel Sinai demilitarizzato. Israele non è di meno mobilitando le sue riserve. Ciononostante la crisi sembra meno grave di quanto può apparire dai titoli dei media anche perché le parti stanno tirando le somme di queste due prime giornate di guerra.

Netanyahu guadagna senza dubbio e probabilmente non vuol perdere i vantaggi acquisiti. Rispondendo al lancio di più di 200 razzi sul suo territorio - che hanno creato morti, vari feriti e un milione di israeliani nei ricoveri - ha già ottenuto quattro risultati: ha compattato dietro di se un paese fortemente diviso sulle questioni sociali; entra nella campagna elettorale per le elezioni di gennaio con l'immagine di leader deciso che nessun altro politico israeliano possiede; ha dimostrato di non preoccuparsi come il suoi predecessori dell'opinione internazionale; riprende una libertà d'azione nei confronti di Washington che la rielezione di Obama sembrava aver considerevolmente ridotto. Infine rinvia -anche se non abbandona- il momento di agire militarmente contro l'Iran.

Guadagna l'Autorità palestinese che senza formalmente abbandonare la sua campagna diplomatica per ottenere il riconoscimento dell'Onu a uno stato palestinese è tutt'altro dispiaciuta nel vedere Israele fare «lo sporco lavoro» contro Hamas, suo mortale rivale.

L'offensiva israeliana su Gaza imbarazza il governo dei Fratelli musulmani del Cairo, votati per ragioni ideologiche e di prestigio alla difesa del governo dei Fratelli musulmani di Gaza. Dimostra il fallimento dei suoi sforzi per ottenere il rispetto del cessate il fuoco delle frange radicali islamiche ostili ai Fratelli musulmani non meno che a Israele. Allo stesso tempo questa crisi offre al Cairo la possibilità di mostrarsi duro con Gerusalemme (ritirando da Tel Aviv l'ambasciatore appena nominato e inviando forze militari nel Sinai), di acquistare prestigio, aumentando il suo peso nei confronti di Washington senza il timore di rischiare un conflitto con Israele (che non vuole mettere a repentaglio la pace con l'Egitto) e al quale l'Egitto non è preparato.

Due sono le grandi incognite: quello che farà Washington e quello che farà Ankara. Obama, invischiato come è negli scandali militari in casa e impegnato a sollevare l'America dalla crisi economica, sembra molto più cauto del passato nel prendere iniziative nel Medio Oriente.

Il premier turco alle prese con la crisi siriana ma allo stesso tempo impegnato a condurre una forte azione di propaganda anti israeliana (con il processo in contumacia contro massimi esponenti militari israeliani considerati responsabili della morte di 8 cittadini turchi sulla nave Marmara che cercava di rompere il blocco di Gaza due anni fa) potrebbe sfruttare la nuova crisi palestinese a suo favore.

Quello che conta in questo momento per tutti è riuscire a contenere la crisi in tempi brevissimi.

Se durasse contagiando la regione sarebbe un disastro che nessuno degli attori è preparato ad affrontare. Uno sviluppo che al di là delle varie retoriche nessuno degli attori desidera in questo momento veder concretizzarsi.

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