Europa e Israele, un unico destino

Europa e Israele, un unico destino

L e «cronache» della settimana scorsa, dedicate a un discorso di D’Alema su Hamas, che mi limiterei oggi a definire imprudente ed estemporaneo, imperdonabile comunque per chi fa il ministro degli Esteri, hanno provocato l’intervento di un certo numero di lettori, come avviene quando si parla di Medio Oriente, che non è una delle tante crisi sulla Terra, è per noi qualcosa di più, e di più vicino.
In molte delle e-mail ricevute si legge un’ansia particolare per la vita e la sorte di Israele. Mi colpisce in modo particolare la lettera di una signora di Mantova che tornata da Israele, ove ha dei parenti, si dice colpita, fra altri aspetti più consueti, da un clima che ritiene in certo senso contraddittorio: da una parte la sensazione angosciosa di quel popolo di vivere una pausa dell’ultima guerra ai confini con il Libano, con le città che si preparano a una ripresa della pioggia di missili, come avvenne allora per lo più sulle città dell’alta Galilea, ma non solo; a questa ansia si accompagna però, da parte di cittadini, partiti, giornali, un dibattito politico serrato, durissimo, nel quale non si risparmiano critiche al governo Olmert, si parla di una crisi, di possibili elezioni.
Vorrei rassicurare l’amica disorientata da questo duplice aspetto della crisi che vive Israele. La democrazia in questo Paese non ha mai cessato di funzionare, neppure nei momenti più drammatici della sua esistenza.
Ero laggiù come inviato durante la guerra del Kippur, nel lontano 1973, e rimasi stupito delle polemiche impietose per la impreparazione del governo e dell’esercito dinanzi all’attacco che si scatenò improvviso sui fronti siriano ed egiziano. I primi giorni furono difficili sul Sinai e sul Golan, ciò non impedì al Paese di superare la sorpresa e di vincere la guerra. Consiglierei alla nostra lettrice l’ultimo libro di Fiamma Nirenstein, Israele siamo noi, nel quale si ricorda come da sessanta anni Israele vive il dramma di una democrazia compiuta e totale nella quale il confronto politico, spesso aspro, convive con la minaccia armata ai confini e da parte di un nemico che non ha mai nascosto la sua volontà di cancellare lo Stato ebraico.
La tesi del libro della Nirenstein è che, in specie negli ultimi anni, diciamo dall’attentato alle Due Torri in poi, il dramma di Israele è diventato simile al nostro: di qui il titolo del libro, di una Europa che mostra almeno per una sua parte di non accorgersene, o di non volerne trarre le conseguenze.
Ad avvicinare le sorti di Israele e quelle dell’Europa, alle nostre che viviamo su un’altra sponda del Mediterraneo è il fatto che il fondamentalismo islamico armato ha dichiarato guerra «agli ebrei e ai crociati», e questi ultimi saremmo noi, condannati e odiati perché abbiamo dato vita a società democratiche e liberali. Nelle quali, ad esempio, le donne hanno un ruolo ben diverso da quello riservato loro nei paesi islamici. E l’Europa, l’Occidente, vivono una contraddizione che diventa un’arma nelle mani dei suoi nemici. «La minaccia - scrive Nirenstein - deve essere affrontata da dentro la società democratica, senza perderne l’ethos e le leggi che si è data, anzi esaltandone il significato perché esse sono la nostra ragione di vita, e sono ciò che il nostro nemico odia e intende distruggere».
Il terrorismo di radice islamica lo ha capito, si muove nelle nostre società sfruttando la libertà e le garanzie proprie degli Stati di diritto usandole come un’arma potenzialmente distruttiva. Di recente l’ex premier spagnolo Aznar, in Italia per un convegno sul Medio Oriente, alla domanda di un giornalista rispose che la politica dell’Europa è «una politica tonta».

Dalla quale ci si scuote in occasione di attentati clamorosi, New York, Madrid, Londra; ci si preoccupa un po’ quando la polizia ci ricorda, come è stato in questi giorni a Perugia, l’esistenza di un pericolo dentro casa. Un po’ poco per sentirci sicuri, e ci si mette pure D'Alema.
a.gismondi@tin.it

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