L'Europa si interroghi sullo stato assistenziale

Mentre oggi l'America è innamorata della democrazia e della vox populi, da parte sua l'Europa è sempre più tecnocratica

L'Europa si interroghi sullo stato assistenziale
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Se a partire dalla fine della Seconda guerra mondiale le due principali componenti della civiltà occidentale (quella europea e quella nordamericana) hanno sviluppato rapporti basati su una sostanziale armonia, nelle ultime settimane le cose sono cambiate.

Non soltanto le classi dirigenti europee avevano inopinatamente scommesso sulla vittoria di Kamala Harris, ma oggi sembrano incapaci di avvertire il significato più autentico della novità rappresentata dalla rielezione di Donald Trump.

Ognuno parla di ciò che conosce e in tal senso non è sorprendente che nell'uscire di scena Biden abbia denunciato il pericolo di logiche oligarchiche: voleva mettere in guardia dinanzi alla strana coppia Trump-Musk, ma chi non è sprovveduto sa da quale parte si sono sempre collocati i principali protagonisti della finanza e dell'industria, chi hanno sostenuto con i loro soldi, da chi hanno ricevuto favori e a chi ne hanno fatti.

In questi anni, per giunta, un tipico prodotto del progressismo americano - il wokeism - in Europa è diventato senso comune tra chi comanda e il risultato è che l'élite europea è molto più in sintonia con Jo Biden che con chi l'ha sostituito alla Casa Bianca. Da anni l'Unione europea arriva addirittura a promuovere studi e ricerche che esaminano, e denunciano, il pericolo dei «populismi», e cioè di quei movimenti politici maggiormente in sintonia con Trump e i suoi elettori.

Le ragioni dell'incomprensione odierna tra americani ed europei sono molte, ma tra le altre una emerge con sempre più evidenza: quella che rinvia alla contrapposizione tra élite e gente comune, classi dirigenti e popolo. Se in America ha vinto il mondo country, in Europa continuano a dominare le aristocrazie cittadine. E questo fa sì che, vista dal Texas, l'Europa possa apparire un mondo ammuffito che s'è liberato dei sovrani dell'Ancien Régime soltanto per sostituirli con commissari Ue, banchieri centrali e politici di professione.

In estrema sintesi si può dire che, nel bene e nel male, mentre oggi l'America è innamorata della democrazia e della vox populi, da parte sua l'Europa è sempre più tecnocratica. E non a caso il vice-presidente James D. Vance s'è detto scandalizzato dall'avere visto annullato il voto romeno (così come già altre volte era accaduto in passato: si pensi a quando dopo il voto contro la Costituzione europea espresso da francesi e olandesi nel 2003 le oligarchie continentali hanno aggirato ogni ostacolo e continuato a rafforzare i poteri centrali).

È certamente paradosso che l'Europa odierna sia in larga misura il frutto del trionfo dell'America dei Clinton, degli Obama e dei Biden. L'ambientalismo radicale e la gender theory, ma anche la iper-regolazione della società e l'interventismo militare «a fini umanitari», sono il risultato di una lunga elaborazione del progressismo Usa.

Se in America però vi sono anticorpi che hanno permesso una qualche resistenza, non è così in Europa.

Va detto che anche quando sbaglia l'America dell'epoca trumpiana appare ancorata al senso comune dell'uomo della strada: all'idea, insomma, che bisogna ridurre la spesa pubblica, alla convinzione (sbagliata) che si debbano alzare barriere commerciali, alla volontà di bloccare l'immigrazione di massa e contrastare il progetto egemonico del neo-comunismo cinese, al desiderio di ridurre la spesa militare ecc.

In Europa, al contrario, sembra non finire l'innamoramento per lo Stato assistenziale, insieme alla volontà di costruire una società sempre più verde e multietnica.

L'Atlantico è diventato più largo. Questo, almeno, fino a quando in Europa non succederà qualcosa.

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