Evgenij Evtusenko, voce di una generazione e dissidente con cautela

Gli era permesso criticare antisemitismo, burocrazia e residui di stalinismo, ma che in qualche modo era destinato al ruolo di poeta ufficiale, se non omologo al potere sovietico, certo non fastidioso o pericoloso per esso

Evgenij Evtusenko, voce di una generazione e dissidente con cautela

Il poeta russo Evgenij Evtusenko è morto ieri per un infarto all’età di 84 anni. Viveva negli Usa dalla metà degli anni ’90 con la compagna Maria Novikova. Tra le sue opere più famose, pubblicata nel 1961, Babi Yar: poema epico sulle atrocità commesse dai nazisti a Kiev nel 1941.

Evgenij Evtusenko viveva da anni un po' nell'ombra, protetto da un'Università americana e da una moglie dalla carnagione bianchissima molto più giovane di lui. Viaggiava ancora, e io l'ho incontrato in diverse occasioni fraternizzando soprattutto di fronte a bicchieri di vino e antichi liquori. Era un uomo alto, atletico come chi aveva avuto il calcio per prima passione, e si capiva che sapeva cosa vuol dire stare e muoversi su un palco. Russo sin nelle midolla, aveva nondimeno qualcosa di yankee nelle pose spavalde e nell'abbigliamento stravagante. Il suo corrispettivo americano fu Allen Ginsberg. Come lui, Evtusenko scriveva versi fluenti e li recitava davanti a un grande pubblico entusiasta. Fu il poeta del disgelo sovietico, si trovò ad avere vent'anni alla morte di Stalin, e poté scrivere distesamente alternando versi di impegno civile a versi di memoria e di amore.

La sua produzione più folta è degli anni Sessanta. Babi Yar affronta il tema della strage degli ebrei a Kiev, andando contro ogni rigurgito di antisemitismo in Urss, poi vennero "La stazione di Zima", "La centrale idroelettrica di Bratsk", "Cadono bianche le nevi". In Italia, è del 1972 la pubblicazione di un suo volume di Poesie per Garzanti. Nel 1982, esce il suo primo romanzo, "Il posto della bacche", sui temi del viaggio e sui paesaggi siberiani.

Per la mia generazione, divenne il più celebre dei poeti russi. Una specie di ambasciatore del suo Paese, cui era permesso criticare antisemitismo e burocrazia e residui di stalinismo, ma che in qualche modo era destinato al ruolo di poeta ufficiale, se non omologo al potere sovietico, certo non fastidioso o pericoloso per esso. Quando Brodskij fu condannato a tre anni di lavori forzati, Evtusenko non ne prese le difese, e - con una profezia sbagliata - scrisse che in fondo si trattava di un poeta che non sarebbe mai andato oltre la mediocrità. Invece sappiamo come finì l'esilio americano di Brodskij: col Nobel. Ci fu questo fondo di ambiguità nella sua figura: comunicatore bravissimo, anche per temperamento, convisse col comunismo e si godette viaggi e gloria, sinché la sua stella fu al culmine. Le sue poesie spesso sono verbose, una onda di immagini e di riflessioni che sembrano più adatte alla recitazione che alla lettura. Qualche volta i temi civili e celebrativi diventano retorici e sono caduchi, come nel testo dedicato a Gagarin e alla sua impresa: «Io sono Gagarin, figlio della Terra/ figlio dell'umanità:/ sono russo, greco, bulgaro, australiano/ e finlandese// vi incarno tutti/ nel mio slancio verso il cielo». La poesia che resiste invece è quella che parla d'amore o della natura. In una poesia come Non t'amo più arriviamo al verso finale per sorprenderci: «Non ti chiedo perdono per non amarti più. Perdonami d'averti amato». In Ribes nero si leggono versi lirici e segreti come «Occhi neri di ribes nero/ come dense gocce della notte».

Ora che Evtusenko, questo ragazzo della poesia, ci lascia, mi piace ricordare l'ultima

volta che l'ho visto, premiato al Lerici Pea. Aveva i soliti abiti sgargianti, ma una vena nuova di debolezza e di tristezza sul volto. La sintonia col pubblico si era un po' perduta. Forse bevve anche poco, quella sera.

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