Alla sera, intorno alle 22, rientra puntualmente nel carcere di Opera. E al cronista che gli chiede conto dei presunti misteri delle Brigate rosse di cui fu a lungo il capo, Mario Moretti risponde ironico: «Tutti dicono che dietro di noi c’era la Cia. Mi dovrebbe pagare la pensione la Cia, invece resto in cella». Moretti è tecnicamente semilibero, ma ormai appartiene a una tribù in via di estinzione perché quasi tutti gli ex brigatisti hanno risolto i loro conti con la giustizia e si sono rifatti una vita. Lui no, non può, perché, come Vallanzasca, è un simbolo e i simboli non vengono scarcerati.
Gli altri, tutti gli altri, sì. Renato Curcio è ormai un pensionato di settant’anni; a suo tempo aveva aperto una cooperativa editoriale, Sensibili alle foglie, a Trento; poi si è risposato, si è trasferito a Carrù, in provincia di Cuneo, vive in un casolare, scrive libri sul mondo del lavoro. Insomma, il profilo del primo grande leader brigatista assomiglia molto a quello di un patriarca che infatti viene invitato qua e là per l’Italia a tenere conferenze.
Può sembrare strano, perfino indecente, ma l’Italia funziona così. Molti protagonisti di quella stagione sanguinaria - e va detto che Curcio appartiene alla prima epoca, finita nel ’74, in cui le Br non uccidevano - sono oggi riveriti, corteggiati, premiati. Adriana Faranda, che partecipò al sequestro Moro, fa la fotografa. E nel 2006 ha vinto un premio a Chieti con il suo romanzo Il volo della farfalla. E Susanna Ronconi, unico caso di pendolarismo fra Brigate rosse e Prima linea, ha avuto consulenze da Asl, Comuni e dal ministro Livia Turco. Finché non sono esplose le polemiche, feroci, e lei ha dovuto fare un passo indietro.
La mappa degli ex è una sorpresa continua. Sergio Segio, uno dei fondatori di Prima linea, lavora nel sociale, scrive libri e a chi gli rinfaccia il passato risponde secco: «Prendersela con noi è come sparare sulla Croce rossa». Maurice Bignami, altro capo storico di Prima linea, a suo tempo condannato all’ergastolo e oggi libero, è un dirigente della Caritas e al Giornale dichiara: «Temo che un giorno all’Isola dei famosi sbarcherà un ex terrorista».
Un’esagerazione? Può darsi, però il red carpet viene srotolato con grande disinvoltura sotto i piedi di quelli che allora sparavano e oggi si sono riciclati come saggisti, conferenzieri, studiosi dell’alienazione contemporanea.
Ci sono voluti anni e anni per restituire dignità ai familiari delle vittime, dimenticati e rintanati nelle loro disgrazie. Alla vedova del procuratore generale di Genova Francesco Coco, ammazzato dalle Br, la medaglia d’oro fu recapitata per posta da uno Stato vile e codardo e un’altra vedova, quella del maresciallo Bazzega, morto in un conflitto a fuoco con il terrorista Walter Alasia, ha raccontato sempre al Giornale la sua sofferenza quotidiana: «Andavo in ufficio e tutti i giorni mi toccava vedere le scritte sui muri di Milano che inneggiavano all’assassino di mio marito: “Onore al compagno Alasia”». A sua volta morto in quella sparatoria.
A molti ex brigatisti è andata bene. Sergio D’Elia, che fu uno dei leader di Prima linea a Firenze, è diventato addirittura deputato e segretario d’Aula, rappresentante di quelle istituzioni che in gioventù voleva abbattere. Oggi non è più parlamentare ma si occupa di un’associazione molto attiva contro la pena di morte: Nessuno tocchi Caino. Alberto Franceschini, che con Curcio fu alla testa delle prime Br, fa il consulente per l’Arci, scrive libri su libri e ha concesso pure un’intervista televisiva scegliendo come fondale via Fani, dove la scorta di Moro fu annientata. Purtroppo il tempo non è galantuomo: alcuni faticano per elaborare il lutto, altri si trasformano piano piano in reduci, campano di memorialistica, talvolta calpestano non solo il buongusto ma anche la pietà.
Alessio Casimirri, l’unico del commando di via Fani a non aver fatto un giorno di carcere, è scappato in Nicaragua e a Managua ha aperto un ristorante: La cueva del buzo. Lui è ancora latitante, ma ormai anche la pattuglia dei fuggitivi si assottiglia anno dopo anno. L’Italia ha celebrato i suoi processi e non sempre le condanne sono state così esemplari, come la gauche francese, puntualmente disinformata, va raccontando sulle sue riviste patinate. Achille Lollo, uno dei protagonisti del rogo di Primavalle, episodio terrificante in cui morirono bruciati i due fratelli Mattei, fu punito con 18 anni. Riuscì ad andarsene, in Brasile e dal Brasile ha svelato tutta la storia di quella tragedia. Poi quando la pena è stata dichiarata prescritta, è rientrato in Italia e si è fatto pure interrogare, giusto un anno fa, senza peraltro rispondere alle domande del magistrato. Giorgio Pietrostefani, che con Adriano Sofri avrebbe organizzato l’omicidio del commissario Luigi Calabresi, l’incipit degli anni di piombo nel maggio ’72, è fuggito a Parigi e di lui ufficialmente si sono perse le tracce. Ma anche la colonia parigina è sempre più esigua. Cesare Battisti, il sanguinario killer dei Pac, ormai sul punto di essere estradato in Italia, tagliò la corda, a quanto pare, con la connivenza dei servizi segreti. E con l’aiuto, nemmeno tanto celato, di molti intellettuali delle gauche che sul sistema giudiziario italiano continuano a dire una montagna di incredibili sciocchezze. Il resto della sua storia è stranoto. Viene riacciuffato in Brasile, sulle spiagge dorate di Rio, ma poi dopo un estenuante ping pong, torna libero e può rientrare nella sua seconda vita di scrittore noir, affermato e anzi osannato in Francia.
Adriano Sofri, leader, va precisato, non delle Br ma di Lotta continua, al centro del più controverso caso della nostra storia, ha appena finito di scontare i suoi 22 ani di carcere. È libero, da pochissimi giorni, ed è rientrato con tempismo nella cronaca, firmando per Repubblica un reportage dal Giglio.
Alla libertà è arrivata, l’anno scorso, anche Barbara Balzerani che alle nuove generazioni dice poco ma che nelle Br ha avuto un ruolo importantissimo. Pure per lei è arrivato il fine pena. Come è scattato per colonnelli e soldati semplici di quella guerra. E una testa fine come Enrico Fenzi, intellettuale, studioso di Petrarca e brigatista della colonna genovese, ha trovato il modo, chissà se volutamente, di giocare con quella pesantissima eredità: il ristorante che ha aperto con la sua compagna Isabella Ravazzi si chiama Ombre rosse.
In carcere, a parte Moretti e pochi altri, non c’è più nessuno. Nemmeno con la formula più soft della semilibertà che permette una vita normale, un lavoro, e il rientro notturno dietro le mura. Ma in galera è tornato Roberto Sandalo, torinese, uno dei nomi più noti di Prima linea, in grado con il suo pentimento accompagnato da una memoria prodigiosa, di smantellare l’organizzazione. Sandalo ha ideato alcuni attentati, compiuti con ordigni rudimentali, contro moschee e luoghi dell’Islam, fra Milano e l’hinterland. Con il Giornale si è giustificato così: «Ho voluto reagire a un clima di indolenza generale in cui vince l’estremismo». Si riferiva al terrorismo che oggi ci spaventa di più, quello legato all’11 settembre.
Ma in procura a Milano, nella città in cui furono ammazzati i giudici Galli e Alessandrini, si sono riaffacciati i fantasmi di una stagione che pareva finita da un pezzo. E forse anche questo spiega la pena, 9 anni e 9 mesi in primo grado, davvero severa. Per lui non c’è stato nessuno sconto.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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