Export e credito, uniche medicine per la recessione

Pil in calo dello 0,7% nel quarto trimestre 2011. È sempre più necessario che il governo avvii una nuova fase di crescita: rigore di bilancio non vuol dire arrendersi alla crisi

Export e credito, uniche medicine per la recessione

L’Italia è in recessione. A certificarlo è l’Istat che nella sua stima preliminare fissa a -0,7% su base congiunturale e a -0,5% su base annuale il calo del Pil nel quarto trimestre del 2011. Un dato che si aggiunge al -0,2% registrato nel terzo trimestre. Il ritorno in recessione avviene dopo poco più di due anni: il precedente periodo di crisi si era ufficialmente chiuso nel secondo trimestre del 2009. Sull’intero 2011 il prodotto italiano risulta in crescita dello 0,4%, in brusca frenata dal +1,4% del 2010. Sul fronte dei conti pubblici, intanto, Bankitalia comunica che l’Italia ha chiuso il 2011 con un debito pubblico pari a 1.897,9 miliardi, in crescita del 2,98% rispetto ai 1.842,9 miliardi di fine 2010. Il debito di dicembre è comunque in calo rispetto ai 1.904,8 miliardi raggiunti a novembre e al record storico di 1.909 miliardi toccato a ottobre. Infine, nel 2011 le entrate tributarie sono aumentate di 6,4 miliardi di euro rispetto all’anno precedente, rende noto ancora la Banca d’Italia.

L’Italia è entrata in reces­si­one perché ha registra­to due trimestri negativi, per il Pil, il prodotto nazionale lor­do, con un calo dello 0,2% nel terzo trimestre, e un pericoloso ribasso dello 0,7% nel quarto. Si registra an­che una riduzione dello 0,5% ri­spetto all’ultimo trimestre del 2010. Ora la nostra capacità pro­duttiva inutilizzata è molto rilevan­te e molte imprese sono di nuovo in difficoltà. Le ragioni di questa aspra recessione, che rischia di av­­vitarsi, sono di economia moneta­ria e di economia reale. La prima è la stretta del credito. Le banche, a causa delle difficoltà derivanti dal­le perdite sul debito pubblico, che avevano in portafoglio, hanno ri­stretto il credito. In parte lo hanno anche fatto perché mal gestite o non abbastan­za capitalizza­te. Inoltre, lo Stato e gli enti locali hanno di­lazionato i loro crediti. La Bce, la Banca centra­le europea, pri­ma di Mario Draghi ha fatto una politica re­strittiva temendo una possibile in­flazione, mentre c’erano pericoli opposti. E ciò ha aggravato la situa­zione. Draghi, da dicembre, ha of­ferto alle banche, al tasso di interes­se dell’ 1%, prestiti a tre anni in cam­bio di garanzie consistenti in credi­ti di vario genere agli Stati e alla clientela bancaria. Ciò ha migliora­to la collocazione del debito pub­blico nelle banche, ma sino ad ora la situazione del credito bancario alle imprese è rimasta quella del contagocce.

Una seconda causa della reces­sione, è il tipo di manovra di finan­za pubblica che il governo Monti ha attuato per mettere i nostri con­ti pubblici in sicurezza, insistendo più sulle imposte che sulle spese (tranne per la riforma delle pensio­ni, che però riguarda soprattutto i bilanci futuri) e ponendo gran par­te del nuovo fardello fiscale sugli immobili,con l’effetto di deprime­re l’edilizia abitativa, volano im­portante per lo sviluppo. Ciò senza adottare alcuna altra immediata misura pro crescita, con l’argo­mento ( errato) che non ci sono sol­di per il rilancio economico. Così è stato tagliato il finanziamento al Ponte sullo Stretto e in genere si è lesinato su ogni investimento, per­ché non ce lo possiamo permette­re.

La riduzione di domanda di con­sumi non è stata controbilanciata da quella di investimenti. Il bonus fiscale per l’assunzione di donne e giovani, contenuto nel decreto Sal­va Italia è u­na misura assistenziali­sta che non crea occupazione. Ed è stato accantonato l’articolo 8 del decreto di agosto, voluto dall’allo­ra ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi, su richiesta della Bce, ri­guardante la flessibilità dei con­tratti aziendali, anche in relazione all’articolo 18 dello statuto dei lavo­ratori, che può risolvere problemi di efficienza e competitività.

Voglio ricordare, ai professori che fanno parte di questo governo, che nel principale libro di Keynes, «Teoria generale dell’occupazio­ne, interesse e moneta», ci sono molti suggerimenti per la politica di crescita e di stimolo all’occupa­zione diversi dal deficit di bilancio.

La teoria che il rigore di bilancio esi­ge la depressione non regge. Intan­to, seguendo Keynes, si deve far ar­rivare alle imprese il denaro che la Bce dà alle banche all’1%. Non a questo tasso, perché le banche debbono sostenere costi di inter­mediazione e rischio del credito, e fare utili, ma a tassi decenti in misu­ra abbondante, con particolare ri­guardo all’export, adottando tutti i metodi possibili di credito agevola­to, che un governo con molti ban­chieri dovrebbe saper escogitare.

Si tratta di neomercantilismo, non di liberismo, ma siamo in emergenza. Inoltre bisogna carto­larizzare i crediti dello Stato e degli enti locali alle imprese, profittan­do delle nuove norme della Bce che consente di finanziarli sui suoi prestiti triennali. Il governo Monti ha scordato il decreto pro crescita, sul quale si era impantanato il go­verno Berlusconi, a causa dell’op­posizione di Giulio Tremonti a in­terventi per lo sviluppo che i mini­st­ri Paolo Romani e Renato Brunet­ta ritenevano possibili.

Si tratta di rilanciare opere pubbliche e spese per infrastrutture in cui lo Stato mette solo crediti agevolati, contri­buti in conto esercizio per una par­te limitata della spesa, garanzie, apporti di beni reali del suo patri­monio, e che in gran parte invece appartengono all’iniziativa priva­ta, e di incentivare con crediti fisca­li la ricostru­zione dai danni causa­ti dai recenti eventi naturali. Gingil­larsi con la liberalizzazione di taxi, farmacie e notai e immaginare che usciamo dalla crisi se gli avvocati aboliscono le tariffe è un perdite­m­po che non fa onore al buon senso.

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