Enrico Benzing
Dottore, primo campione del mondo della Formula 1, nipote del geniale Pinin, Giuseppe Farina, Nino per tutti, nato proprio al momento della creazione dell'auto da Grand Prix, cento anni fa, con il Gp dell'Acf a Le Mans, è stato un uomo di classe. Pilota intelligente, signorile, entusiasta, travolgente, spesso irruente: «Anche nervosetto... agli inizi», mi disse una volta il suo grande zio, Battista Pininfarina. È stato un po' maltrattato dallo sport, a causa della parentesi bellica, così come è accaduto per altri campioni, a cominciare da Villoresi, ma ne è stato ampiamente ripagato, con l'iscrizione del suo nome in testa a quell'albo d'oro degli iridati, che tutti consultano: 1950, Nino Farina, Alfa Romeo. Un alloro magico, per una vittoria al primo atto di Silverstone, una al Bremgarten (Gp di Svizzera) ed una nella battaglia finale di Monza, sulla pista più adatta alle sue qualità velocistiche, dove l'ho conosciuto, due anni prima, nella gara inaugurale - veramente entusiasmante e vittoriosa - dell'Autodromo appena ricostruito.
Aveva quarantadue anni; era già un campione conclamato, per i pochi intenditori d'allora, non certo per il grande pubblico, ancora lontano dalla neonata Formula 1 e provato dagli strascichi della guerra. Mi parlava con grande gentilezza, appena presentato, come giovane aspirante giornalista dell'automobile: apparentemente, un piccolo seccatore. Sorrideva compiaciuto, mentre gli dicevo di averlo incontrato, da ragazzino, in casa di Giovanni Canestrini, di cui son divenuto allievo ed erede alla Gazzetta dello Sport, e di conoscere tutti i dettagli della famosa spedizione, assieme al mio maestro, alla Coppa Vanderbilt americana del 1936, con Nuvolari, superbo trionfatore, e Brivio, sulle Alfa Romeo della Scuderia Ferrari. Sapevo tutto di quella nuova pista a Long Island, in terra battuta, e del terzo posto da lui occupato fino al ventesimo giro, prima di finire contro le protezioni.
Si capisce subito, da questi elementi, che i grandi guidatori di quell'epoca non sbocciavano a vent'anni, ma almeno a trenta, e la parabola era spostata di un decennio. Nel mondiale, erano tutti personaggi eccelsi. Quando arrivai la prima volta al Nürburgring, nel 1951, gli altoparlanti diffondevano a tutto volume il nome degli iscritti al Gp di Germania, soffermandosi su «Der Meister» in carica, «Doktor Nino Farina». Così lo chiamavano, con tanto rispetto. Campione del mondo a quarantaquattro anni. Quanto prestigio per le macchine e per i piloti italiani. Il ricordo di Nuvolari e Varzi era nell'aria; Ascari alla ribalta. E dire che poco prima c'era stato un piccolo sollevamento, all'arrivo di Juan Manuel Fangio: non era il caso di ricercare guidatori stranieri, quando avevamo in Italia il massimo da offrire. Riserbo e silenzio generale nell'ambiente: non esisteva la grancassa mediatica d'oggi. Venutone a conoscenza, con un po' di ritardo, chiesi qualche spiegazione proprio a Nino Farina. Risposta elegante e da campione: per me va bene così; contano soltanto i tempi sul giro e Guidotti (il mitico direttore sportivo, che fu copilota di Nuvolari e che vinse Mille Miglia e Le Mans) ha sempre fatto delle selezioni serie. Proprio il caro Guidotti, che mi confermò i retroscena, portò Fangio all'Alfa Romeo, nel 1950, quand'era quasi uno sconosciuto, vincitore della Buenos Aires-Lima, di quasi mille chilometri, e alla soglia dei quarant'anni. Certo, l'argentino fu una rivelazione, imponendosi da Montecarlo a Francorchamps e a Reims; ma, per tre punti, il titolo andò a Farina. Soltanto l'anno dopo, nell'aspra lotta con le Ferrari di Ascari e Gonzalez, Fangio capovolse la situazione.
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