Ferguson, settant’anni da baronetto furioso

Ferguson, settant’anni da baronetto furioso

Uno scozzese non poteva scegliere una data migliore per venire alla vita: l'ultimo giorno dell'anno, prendi due e festeggi uno. Alex, sir Alex Ferguson, compie oggi anni settanta, roba bella e affascinante per un uomo di football, per uno che ha fatto la storia di questo sport restando sull'isola della Regina che per lui, in verità, nonostante il titolo di baronetto, consegnatogli nel Novantanove, non ha particolari significati, essendo Alex Chapman un ragazzo di Govan, cresciuto con la birra aspra e scura, come i giorni delle lotte del sindacato del cantiere navale, dove suo padre, Alexander Beaton, batteva le lastre di acciaio, un ragazzo terribile, bocciato a scuola, tre volte, operaio alla Remington laddove deve aver imparato l'arte di rasare i colleghi e gli avversari.
Lo spogliatoio è la sua vera casa da sempre, la stanza fumosa che sapeva di olio canforato e di aria umida e sporca, lui, prima di essere sir, a berciare in faccia ai ragazzi dopo una sconfitta miserabile contro quelli del Wimbledon, dunque poche palle, tutti fucking loser, fottuti perdenti, perché questa è la legge dei novanta minuti, si va in campo per vincere e basta, uno scozzese poi non può accettare il compromesso, anche se torna comodo nelle jokes, nelle barzelette su questo popolo così grandioso e così costretto a fare il cuore coraggioso, in prima linea mentre gli inglesi preparano i tamburi e sventolano le bandiere per annunciare la vittoria, la loro, mentre gli scots lasciano il sangue sulla terra.
Alex ha vinto quello che voleva e doveva, lo licenziarono dal St Mirren per una strana storia di denari in nero pagati ai giocatori, ma la sua carriera porta trofei, quarantatrè per dire, oltre a litigi paurosi in quello stanzone di cui sopra. Lo chiamavano Furious Fergie, lanciava thermos, bicchieri, asciugacapelli al primo che gli fosse passato davanti, poteva essere anche tale David Beckham che si prese uno zoccolo o tacchetto di scarpa sul labbro e dovette star zitto, il "flash", il fighetto come sir Alex chiamava il biondino dalla voce efebica. Sul phon c'è poi la leggenda, Alex non ancora baronetto ruggiva così tanto sulla faccia del malcapitato che qualcuno decise di etichettare quelle esibizioni come "hairdryer traitment", il trattamento asciugacapelli, tanto caldo e forte era l'urlo del boss sulla cresta del calciatore.
Sir Alex li guarda, gli inglesi, masticando il milionesimo chewing gum della sua esistenza, assiste all'azione come un tifoso qualunque, si accuccia, stacca in piedi, maledice, esulta, avvampa nelle gote, rimastica la gomma americana, si riaccomoda sulla panca, prepara la bocca e la lingua, non all'insulto, ma a un sorso di vino di Borgogna che è il suo piacere vero, assieme al football e ai cavalli. Ferguson a settant'anni non è cambiato dall'Alex di venti.

Con una sola differenza: Cathy, Cathy Ferguson, la sua signora da quasi mezzo secolo, quella che lo ha convinto a non mollare, a continuare perché ci sono altri thermos, altre scarpe, altri chewing gum, altri fottuti perdenti. Ma c'è sempre lui, Alex Ferguson, Furious Fergie.

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