Leggere le lettere private di uno scrittore è un tradimento. Vuol dire colpirlo alle spalle, svelare la nudità di un dio, far svanire il mistero. Esercizio proprio della nostra epoca - esteticamente scialba - preferire la corrispondenza di uno scrittore ai suoi testi creativi, anteporre gli alibi ai libri, l'uomo al genio, il pettegolezzo all'intuito, la buona morale alla grande opera, il relativo all'assoluto. Per Milan Kundera - che ha sistematicamente eliminato le proprie lettere private - il vilipendio della letteratura si compie appena si fa dello scrittore un personaggio e si cerca - con rabbiosa acribia - una corresponsabilità tra la vita reale del romanziere e la vita fantasticata nei romanzi. In sostanza: se dietro al libro vogliamo un uomo vuol dire che siamo dei cattivi lettori, dei bacchettoni - o che quel libro, pessimo, non si regge da sé.
Ci sono, poi, lettere e lettere. In pochi hanno eletto la lettera privata a genere proprio: gli agonisti dell'egotismo - Lev Tolstoj, Gustave Flaubert, Boris Pasternak, Rainer Maria Rilke, ad esempio -, che scrivono, in fondo, sempre a se stessi e di se stessi, con il profilo rivolto ai posteri - o i santi isterici, i puri ispirati - William Blake, Emily Dickinson, Antonin Artaud, Marina Cvetaeva, per dire - che scrivono dal fondo del loro cuore, raschiando l'anima, rischiando tutto, già morti al mondo. In Italia, soltanto Cristina Campo - scrittrice sui generis - ha fatto della lettera il congeniale modo di esprimersi, con arguzia austera, ricattatoria, replicando i toni delle viziose dame del Settecento francese - Julie de Lespinasse, Madame Aïssé, Madame de Sévigné - come delle austere badesse, fondatrici di monasteri. Il resto è chiacchiera, regesto di vite comuni, tutto sommato banali.
Paul Verlaine non si sottrae al grigiore che regge genericamente il genere. La sua Corrispondenza - curata in due tomi da Vito Sorbello per Aragno, pagg. LIX+1145, euro 60 - sarà certamente necessaria per gli studiosi che vogliano ricostruire la storia dell'uomo: al lettore dà ben poca gioia. Di Verlaine saggiamo la propensione servile, l'ossessione per il lavoro sicuro («Vengo a sollecitare dalla vostra alta bontà il mio reintegro negli uffici della Prefettura della Senna», scrive il poeta al prefetto, nell'agosto del 1882), le costanti insicurezze, la necessità di farsi sempre perdonare qualcosa, soprattutto dalla moglie, Mathilde Mauté, bambolina - la conosce diciassettenne, dieci anni più giovane di lui, per sposarla poco dopo - che si rivelerà bulldozer. Come scrive a Ernest Delahaye da Stickney, UK, «non ho assolutamente niente di interessante e di nuovo da dirti... la mia vita è follemente calma... ho atrocemente bisogno di calma». Per carità, è la primavera del 1875, Verlaine transita per fatue manie religiose e dietro i ricorrenti avverbi, gli aggettivi in rincorsa - follemente, atrocemente - riconosciamo il crisma della contraddizione. Tuttavia, c'è poca pappa per il romanzo: Verlaine resta un uomo rasoterra.
Poeta dall'orecchio musicale straordinario, capace di trarre indimenticabili tintinnii dall'ordinario, «primo poeta del Novecento, certamente quello che più degli altri apre il Moderno» (così Cesare Viviani, autore di una partecipe traduzione di Feste galanti per Guanda, 1979, poi Mondadori, 1988 e diverse edizioni Se), Verlaine è modesto quando scrive in prosa. «Ultimo, sperduto nipote di François Villon», secondo Sergio Solmi, «egli non sa esprimersi in prosa, e la sua frase rotta e saltellante dimostra l'incapacità a piegarsi all'esposizione di un pensiero o alla narrazione seguita».
Il vero invitato a nozze dell'epistolario, comunque, è Arthur Rimbaud. La corrispondenza, per squarci, permette di seguire l'amore vampiro del ragazzo delle Ardenne per il poeta manomesso dal giogo delle virtù borghesi. «Questa vita violenta e tutta scenate... non poteva andarmi fottutamente più», scrive Verlaine al suo ebbro amante; nel very urgent che sigilla la busta registriamo l'urgenza, piuttosto, di vivere una vita vera, verificata dai bassifondi, innocentemente abietta. «Ti amavo immensamente», sussurra, soggiogato, Verlaine. Rovinato dall'amore per Rimbaud, abbandonato dalla moglie, Verlaine compie un ennesimo, patetico, tentativo di uccidersi. Dichiara il suicidio alla madre - «Madre mia, ho deciso di uccidermi», scrive da Bruxelles, il 4 luglio del 1873 - per essere bacchettato, a stretto giro, dalla madre di Rimbaud: «Uccidervi, sciagurato? Uccidersi quando si è oppressi è una vigliaccheria», fa lei, «uccidersi quando si ha una santa e tenera madre che darebbe la vita per voi... è un'infamia». Dopo avergli dato, in sostanza, del senzapalle, Mamma Rimbaud, nata Marie Cuif, procede con la cruda morale - «fate come me, caro signore, siate forte e coraggioso contro tutte le afflizioni» - e un invito che sa di crudeltà, «spero di incontrarvi un giorno». Naturalmente, Verlaine non si farà mai vivo.
Il seguito è noto. Il 10 luglio del 1873, dopo l'ennesima litigata, con una pistola acquistata la mattina stessa, Verlaine spara due colpi contro Rimbaud, ferendolo al polso. È il punto di non ritorno. Mentre Rimbaud termina Una stagione all'inferno, Verlaine è incarcerato ai Petit-Carmes, processato e condannato a due anni di reclusione, da scontare a Mons. Un tribunale sancisce la separazione tra Paul - socialmente demonizzato - e la moglie; divorzieranno nel 1885. L'anno dopo, Mathilde si unirà a Bienvenu Auguste Delporte, cupo ingegnere belga.
Aveva ragione Ardengo Soffici: «l'entrata di Arturo Rimbaud in casa e nella vita di Paolo Verlaine fu come un pizzico di dinamite in una scodella di minestra». Nel saggio agiografico su Arthur Rimbaud, pubblicato nel 1911 per i «Quaderni della Voce», Soffici, con alato cinismo, stigmatizza Mathilde, moglie smaliziata, capace di afflosciare l'estro di Verlaine: «In pochi mesi era riuscita a pettinarlo, a lisciarlo, a infiocchettarlo come un agnello pasquale, a castrarlo come un gatto soriano».
In carcere, Verlaine impetra l'attenzione di Victor Hugo, gli confessa gli «orribili guai con mia moglie», lo implora di intercedere per lui. «Un attimo di follia, complicata e provocata da lunghe e segrete sofferenze, mi ha fatto abbandonare la via felice e calma nella quale ero infine entrato e rientrato dopo angosce atroci». Il grande scrittore si piega al nobile compito, si rivolge alla moglie di Verlaine - «Il vostro infelice marito mi scrive. È malato» -, pur senza sortire alcun felice effetto.
La corrispondenza si ferma al 1885. L'anno prima, per Léon Vanier, Verlaine aveva pubblicato lo studio su Les Poètes Maudits, o meglio, «i Poeti assoluti». Calcificò il mito messianico di Rimbaud, fanciullo «dal volto perfettamente ovale d'angelo in esilio... E occhi di un azzurro pallido inquietante», in una formula, il maledettismo, fortunatissima, indossata con lo stesso agio da Paul Valéry e da Mick Jagger, da Michel Houellebecq e da Jim Morrison, da Dario Bellezza come da Jenis Joplin.
Soltanto oggi, indegna diserzione, a un artista è chiesto di essere moralmente integro.Scavato dall'alcol e dagli stenti, a tratti in carcere, spesso in ospedale, menomato da un io disfatto, Verlaine fu obbligato a farsi maledetto. Subì la maledizione della poesia.
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