Ferrando, il compagno Sandokan che difende la «violenza operaia»

Professore di liceo a Savona, ex pallanuotista, rimprovera a Bertinotti di seguire Gandhi

Roberto Scafuri

da Roma

Amante del buon cinema e del teatro, «perché come diceva Trotzskij non esiste cultura proletaria, le masse imparino la cultura, punto». E allora: colto, cortese, misurato nei modi, spesso abbronzatissimo, sempre affabile e sorridente, specie con le donne. Un «piacione» alla savonese, cui le compagne rifondatrici tributano il soprannome di «Sandokan», in virtù di una barba curatissima e una prestanza fisica da ex pallanuotista. A 51 anni Marco Ferrando ha smesso con le «palombelle rosse», preferendo tenersi in forma con il surf. Posizione ardua, la sua, perché oggi Sandokan è in bilico sull’onda rifondatrice che avrebbe potuto spingerlo fino al seggio di Palazzo Madama. E il surf fin qui inforcato in politica, la purezza trotzskista, rischia pure di averlo smarrito, tanto poco i compagni più-puri-che-ti-epurano hanno gradito il «cedimento» alla politica borghese.
Forse aveva sottovalutato l’impatto di una titolazione che lui definisce «giornalistica», quella su Nassirya, «quando le idee contenute nell’intervista sono condivise dal 41% di Rifondazione e non solo...». Forse c’è persino una sfumatura di rammarico, nel professor Ferrando, che da un anno e mezzo è in aspettativa e non insegna storia e filosofia ai ragazzi di Savona. Rammarico ma non ritrattazione, beninteso, come nella tradizione minoritaria di un estremismo che rimprovera a Bertinotti la scelta della «non violenza» perché «i popoli oppressi devono esercitare la lotta per l’emancipazione con strumenti adatti e non possono costruire il futuro in base a un astratto pregiudizio filosofico».
Ma c’è chi più maliziosamente vede nella rivendicazione ferrandiana il segno dell’ennesima ribellione al gruppo dirigente del suo partito, la voglia di far saltare il sogno di una Rifondazione capace di contenere la lotta, e anche il governo. Una «lezione del Novecento» non compresa, l’aveva definita Ferrando in uno dei suoi interventi al Comitato politico di Prc. «Quando una forza del movimento operaio si associa a un governo della classe avversa non piega l’avversario, ne è piegata, non aiuta il movimento, lo rimuove, non gestisce un’avanzata, ma un arretramento...». Concezione «minorista», da sempre refrattaria ai compromessi e allo «sporcarsi le mani». «Non è peggio starci, se poi non riesci a incidere e a sostenere delle politiche giuste?», s’infervora. Il paradosso è che per i suoi compagni «puristi», vedi gli acerrimi nemici del Partito marxista-leninista (Pmli), lui è invece un «entrista trotzkista storico».
Peccato, scrivono, il suo curriculum era «impeccabile». Appena quindicenne, nel 1970, inizia in «Lotta comunista», gruppo bordighista. Nel ’75 entra nell’Organizzazione trotzskista internazionale. Poi, di scissione dell’atomo in scissione dell’atomo, un profluvio di sigle e medaglie al merito gruppuscolare. Infine, nel ’91, Prc. Due compagni di strada significativi: Livio Maitan, da poco scomparso, e Franco Grisolia. «Sembra che Ferrando e il suo compare Grisolia - insinuano ora i nemici - lavorassero da mesi all’accordo con Bertinotti alle spalle di altri dirigenti dell’area...».

Accuse che Sandokan non ha digerito, lui che vede nel marxismo «non un dogma, ma una tradizione viva, da aggiornare permanentemente». E insinuazioni che forse l’hanno spinto ancora una volta a cercare l’onda, inattuale Sandokan a caccia di una tigre da abbattere.

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