Ferretti e l'avanguardia di chi resta "sconnesso"

Parla l'ex cantante dei Cccp: "La tecnologia rende obsoleto l'uomo, cancella le differenze e ci illude di essere tutti uniti"

Ferretti e l'avanguardia di chi resta "sconnesso"

Lo incontro a Pietrasanta, nel chiostro della non più santa, ossia sconsacrata, chiesa di Sant'Agostino, nell'ambito di Libropolis, il festival degli intellettuali dissidenti. Giovanni Lindo Ferretti è davvero molto dissidente e non solo dal punto di vista intellettuale ma anche dal punto di vista estetico visto che sfoggia dei nuovi incredibili favoriti. Non riesco a interpretarli (omaggio a un trisavolo? A Francesco Giuseppe? A Lemmy dei Motorhead?) e rimarranno un mistero perché non ho il coraggio di affrontare l'argomento. Io con i peli di Ferretti ho sempre avuto problemi, da quando lo conobbi a Reggio Emilia un secolo fa, ossia negli anni del punk quando lui portava in testa una cresta mostruosa mentre io ero un new waver incravattato. Difficile andare d'accordo... Nel frattempo sono successe innumerevoli cose nella mia vita e nella sua, oltre che nel mondo, ovviamente, eppure lui è sempre abbigliato da rocker e io sempre incravattato. Se la distanza vestimentaria è ancora grande la distanza ideologica si è ridotta moltissimo: lui oggi è un cattolico conservatore, io oggi sono un cattolico conservatore, con la differenza che la sua fede sembra tuttora solida mentre la mia è stata alquanto ammaccata da Papa Bergoglio. Considero Ferretti uno dei pochi maestri viventi, per non dire sopravvissuti (in questo annus horribilis ho perso Arbasino, Daverio, Fumaroli, Mathieu, Pansa, Ricci, Scruton, Severino, Steiner...) e allora ne approfitto per fargli qualche domanda, partendo dall'ultimo libro, Non invano (Mondadori).

Tu scrivi «Da anni mi scontro con questa parola: eremita. Mi spiace, non lo sono». Però non mi risulti essere sui social e siccome oggi il mondo è, o sembra essere, tutto dentro questi maledetti schermini, un po' eremita lo sei davvero.

«Io sono vecchio, ho 67 anni e posso permettermi di non avere rapporto alcuno con i social. Io non so niente, nemmeno di quello che si dice di me. E mi rendo conto di essere da questo punto di vista o un sopravvissuto o un'avanguardia. Non sono un eremita perché eremita, nella mia concezione che è ancora una concezione classica, è un'espressione religiosa: l'eremita è colui che si ritrae dal mondo degli uomini per rapportarsi nel quotidiano a Dio. Non ci sono altre possibilità di essere eremiti».

Dunque come ti si potrebbe definire?

«Io sono un asociale. Rispetto alla socialità di questi tempi indubbiamente sono un asociale, sono quasi sull'orlo dell'illegalità perché la legalità oggi è molto determinata dalla connessione. Io scopro i dpcm quindici giorni dopo che vengono emanati, perché qualcuno me lo viene a dire. Quindi significa che sono un asociale, non sono adatto a vivere questo mondo, a mia discolpa posso dire che sono vecchio e di non sentirmi più parte in causa. Mentre la parola eremita ha un'accezione troppo profonda perché io mi ci possa riconoscere, se facessi l'eremita sarei un monaco e avrei preso i voti. Io non ho fatto voto di povertà, non ho fatto voto di obbedienza, sono anche un semi-gaudente, non mi basta essere fuori dai social per essere un eremita. Io non sono sui social perché secondo me fanno parte dei problemi del mondo e non delle soluzioni».

«Viviamo un trapasso antropologico», scrivi, e questa frase mi ha ricordato la mutazione antropologica analizzata da Pasolini al passaggio dall'Italia contadina all'Italia moderna. Adesso verso quale Italia si va?

«Pasolini è un poeta, un visionario, quindi percepisce la fine dell'Italia rurale, che sembrava eterna ma che si trova in grave difficoltà rispetto al boom economico e al consumismo. Il trapasso antropologico che vedo io non è un problema dell'Italia, è un problema dell'umanità: sono subentrate cose che per Pasolini erano impossibili da pensare, perché la connessione, la virtualità, l'intelligenza artificiale hanno cambiato la dimensione dell'uomo sulla faccia della terra. Una mutazione che riguarda l'uomo nella sua essenza. Quello che vedeva Pasolini era il mutare del popolo italiano, quello a cui noi assistiamo è il mutare dell'uomo e della donna sulla faccia della terra, tant'è vero che sempre di più si parla di transumanesimo. L'uomo che non basta a sé cerca soluzioni alla sua mancanza nell'utilizzo delle macchine e qui si apre uno scenario veramente nuovo che Pasolini non poteva immaginare, come noi non possiamo immaginare quello che succederà fra dieci anni perché i tempi si sono molto accelerati, quelli che erano i tempi biblici, quindi millenari, sono diventati tempi secolari, poi sono subentrati i decenni, poi adesso il tempo ci è scappato di mano perché le cose cambiano da una stagione all'altra».

«Israele è un minuscolo Stato di cui un Muro residuo è fondamenta, ne custodisce l'essenza». Tu chiaramente sei un estimatore dei muri: i muri ci salveranno?

«No, i muri non possono più salvarci perché non c'è più possibilità di ritrarsi in un luogo nascosto: arrivano i droni, arrivano gli elicotteri, arriva tutto... Ma per me le mura di casa sono la cosa più rassicurante a parte l'utero materno, chiudo la porta di casa, il mio bel portone, e mi sento protetto come si sente protetto un feto all'interno dell'utero materno. Pensare che gli uomini non abbiano bisogno di protezione è una follia».

Israele sa come proteggersi.

«Israele per me è un luogo essenziale della mente, dello spirito e anche della geopolitica. È sorprendente, è un miracolo, che questo piccolo Paese sia costruito sul residuo di un muro di duemila anni fa e sia difeso da un muro tra la propria esistenza e i territori palestinesi, dimostrando che anche nel regno della tecnologia un muro non è mai da buttar via, ha sempre una sua funzione».

Nella tua ultima canzone, L'imbrunire, oltre ai muri sogni ponti levatoi.

«Il ponte levatoio è ancora meglio perché lo puoi aprire e lo puoi richiudere: tutte e due le funzioni sono indispensabili. Comunque che si disprezzino i muri segnala l'ingresso in una dimensione folle dell'esistenza umana, vuol dire non avere mai percepito il valore della famiglia, la dimensione famigliare, una dimensione dell'uomo che è animale e spirituale e ti fa sentire protetto. Chi non apprezza i muri secondo me è inumano».

«Un ciclo storico è finito, lo sradicamento è il presupposto per accedere alla mutazione in atto. Lo ha imposto l'economia, lo sostiene la politica, la gerarchia cattolica ne fa pastorale». Hai scritto queste parole prima della Fratelli tutti, che io definisco l'enciclica dello sradicamento, ma potrebbero esserne un commento.

«Per me la riflessione sullo sradicamento è nata dalla lettura di Simone Weil. In un'epoca di sradicamento il radicamento è una necessità personale: è una dimensione personale, non una dimensione sociale, perché questa è l'epoca dello sradicamento e lo certifica anche il Papa. Fratelli tutti in sostanza significa che non esiste storia, non esiste geografia, non esiste il passato, il presente, il futuro, c'è un indistinto unico. È qualcosa che travolge la dottrina. È ovvio che in una dimensione religiosa c'è uno sguardo di particolare rispetto nei confronti dello straniero, però se siamo tutti uguali non c'è più straniero, quindi non c'è più società che deve particolare rispetto allo straniero...».

L'egualitarismo ideologico della Fratelli tutti sembra voler annientare tutte le differenze, se non tutte le culture.

«Non è la stessa cosa nascere a Cerreto Alpi o nascere a Ulan Bator, non è neanche la stessa cosa nascere ebreo o nascere palestinese, non è la stessa cosa nascere bianco o nascere nero... Siamo tutti fratelli, sì, siamo tutti fratelli: i primi due si sono massacrati, e sappiamo com'è andata fra Romolo e Remo. Siamo tutti fratelli cioè siamo nella merda, il male fa parte di noi, anche della fratellanza».

A proposito di male, in Non invano scrivi di censura, fai notare che anche solo rivelare la contraddizione etimologica dell'espressione «matrimonio omosessuale» rischia di diventare un reato, e comunque è già robustamente sconsigliato, innanzitutto sui social.

«Assieme alla stampa è nata l'idea della libertà di stampa, un assoluto umano. Tutto il dibattito che c'è oggi rispetto ai social è sulla necessità della censura, perché la libertà di stampa non è in grado di reggere la dimensione tecnologica della nostra comunicazione. Questo è molto preoccupante perché il posto della libertà di stampa, ripeto, un assoluto umano, è stato preso da parole molto piccole: anti- e -fobia. Due parole deleterie anche se vengono usate con le migliori intenzioni. Da che esiste la stampa esiste la libertà di stampa, se la stampa non esiste più non esiste più la libertà di stampa. La libertà di stampa l'abbiamo persa in un attimo, oggi siamo in un'altra dimensione, nella dimensione dei social che presuppone una realtà in cui l'uomo non è più essenziale.

«C'è sempre qualcuno che vorrebbe ridurre il mondo ad un convitto in cui tutto è ben regolamentato», scrivi. Non è solo il problema della libertà di espressione, ulteriormente minacciata dal disegno di legge Zan, io sento molto anche il problema della libertà d'impresa, della libertà economica che è poi la libertà di lavorare.

«Non esiste possibilità di lavoro sostenendo tutta la dimensione determinata dalla contrattazione sindacale, che è plausibile solo all'interno di canoni industriali. Un bar non funziona, non può funzionare se è soggetto a tutte le normative. A Cerreto Alpi non prendiamo neanche il pane se dobbiamo stare nelle regole perché il pane arriva alle sei di mattina e la donna grande e meravigliosa che va a prendere il pane lo va a prendere fuori dall'orario di lavoro: se va a prenderlo quando comincia l'orario di lavoro rischia di ritrovarlo bagnato. Alle sei arriva il pane, è così, non c'è niente da fare, non puoi mettere in piedi una trattativa sindacale per decidere come risolvere questo problema. Ci sono delle cose che sono irrisolvibili. Governare l'ingovernabile è una pretesa, la vita non è governabile».

Il governo però pretende di farlo, a colpi di dpcm.

«Tutto quello che sta succedendo, l'entrata clamorosa dello Stato nella dimensione famigliare, è spaventoso. Lo Stato decide chi possiamo vedere, con chi possiamo abbracciarci, con chi possiamo andare a cena...».

Con chi e dove possiamo pregare.

«Abbiamo perso la ragione, di colpo, quando si sono chiuse le chiese e i cimiteri. Io ho vissuto quei mesi con una rabbia che avrei picchiato il prete, avrei picchiato il Papa... Nella chiesa di Cerreto Alpi nei mesi di febbraio, marzo, aprile, maggio, giugno, siamo undici o siamo dodici o siamo tredici: potremmo stare in chiesa uno per banco avendo in mezzo un banco vuoto e rimarrebbe dello spazio. Ma la prima cosa che è stata chiusa, per dpcm, è stata la chiesa. Poi è stato chiuso il cimitero, con un lucchetto. Se uno va al cimitero si rende conto che al cimitero non ci va nessuno tranne che nei giorni dei Morti, ma eravamo a marzo. Chiudere il cimitero è stato uno sgarbo, un'offesa clamorosa all'umanità di un piccolo e povero paese perché io vi garantisco che in dieci anni di frequenza quotidiana al cimitero non mi è mai capitato di trovare altre due persone dentro al cimitero di Cerreto Alpi, mai capitato».

Come andrà a finire?

«Non so dare una risposta però so guardare la realtà, indietro non si torna.

Noi abbiamo già ceduto a qualcosa che chiamiamo tecnologia le sorti dell'umanità. Però, continuo a ripeterlo, se si avvicinasse il tempo dell'apocalisse ne sarei felicissimo e penso che ogni persona religiosa dovrebbe esserlo. Si avvicina il ritorno del Salvatore? Bene, non vedo l'ora».

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