Roma - Perché il cinema italiano sembra avere tanta difficoltà a raccontare le Brigate Rosse? A parte poche, lodevoli eccezioni (quasi sempre dedicate, però, al solo caso Moro), e nonostante un potenziale tematico e drammaturgico evidente, anzi ideale per una riflessione cinematografica, i plumbei anni del terrorismo rosso raramente riescono a diventare film. Non è un caso che la sceneggiatura de Il sorteggio, Menzione Speciale al prestigioso Premio Solinas, «per ben due volte si sia vista negare i finanziamenti ministeriali - riflette Giovanni Fasanella (il giornalista che l’ha scritta, con Giuseppe Rocca e Giorgio Glaviano) -. Allora il progetto è passato per dieci produttori diversi, ma nessuno è riuscito a trasformarlo in pellicola. Finché non ci siamo rivolti alla Rai. E Il sorteggio è finalmente diventato un film. Ma televisivo».
Giudicheranno dunque i telespettatori - lunedì alle 21,10 su Raiuno - cosa ci sia di scomodo nella storia (autentica) dell'operaio della Fiat che, nella Torino del 1977, viene sorteggiato come giudice popolare al primo processo contro le Brigate Rosse, e che per questo, da uomo qualunque, è costretto a trasformarsi in eroe. Intanto, però, una spiegazione Fasanella ce l'ha già. «Una parte della cultura e della politica italiana non è stata capace di fare i conti con quella tragica esperienza, col suo terribile carico di morti e feriti, perché in quell’esperienza essa ha avuto delle precise responsabilità. Al di là del normale periodo di rimozione che accompagna ogni stress post-traumatico, e che nei primi tempi sarebbe stato comprensibile, la rimozione continua ancora oggi, e si è trasformata una vera e propria sindrome. Da questo punto di vista l’Italia è un paese malato. Ancora non ha trovato l'analista che l'aiuti ad elaborare il proprio complesso di colpa».
Ne Il sorteggio (interpretato da Giuseppe Fiorello e Giorgio Faletti, per la regia di Giacomo Campiotti) si dice chiaro e tondo che «l’acqua in cui hanno nuotato i pesci brigatisti è stata la fabbrica. E la Rai ha avuto molto coraggio ad accettare di trasformare in fiction una storia che, per la prima volta, non racconta lo scontro fra terroristi e le istituzioni; ma fra i terroristi e i cittadini qualunque». In ventiquattro mesi di durata il processo di Torino subì innumerevoli rinvii anche per le rinunce di tutti quei giurati popolari che, sottoposti a minacce brigatiste, rinunciavano al compito, terrorizzati. «E il punto di vista del racconto, che è appunto quello del cittadino comune, è il tratto più originale del film - considera Giuseppe Fiorello -. Per interpretare quest'operaio, persona qualunque, senza passioni politiche e, anzi, moderatamente disinteressato al bene comune, mi sono fatto una sola domanda. Come avrei reagito io nei suoi panni? Al suo stesso modo, mi sono risposto. Con ansia, smarrimento, paura. Ma forse non avrei avuto il suo coraggio di non mollare». «Noi tutti siamo pronti a parlar male dello Stato - osserva il regista Campiotti -. Ma quando poi siamo chiamati ad impegnarci in prima persona, allora veniamo colti dai dubbi». Il protagonista è, evidentemente, una figura-simbolo, «ma ispirata a due autentici giurati di quel processo, che io conobbi personalmente - racconta Fasanella (anch'egli all'epoca colpito da minacce brigatiste, in quanto giornalista) - e uno dei quali, cronista appena ventenne, fu posto davanti alla drammatica scelta: lasciar perdere o rischiare in prima linea?». La scia di accoglienze contrastanti fin qui raccolte da Il sorteggio (già vincitore di vari premi televisivi, prima ancora della messa in onda) ne evidenzia il contenuto problematico: «A New York, nella Settimana della Fiction Rai, abbiamo avuto ovazioni - racconta Fasanella -. Alla manifestazione di Biarritz, in Francia, parte della critica è rimasta spiazzata. Essa ha dei terroristi ancora una visione inspiegabilmente romantica».
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