La prima impressione che si ha leggendo la sinossi del nuovo film di Paolo Genovese (già autore, tra gli altri, di "Immaturi", "Una famiglia perfetta" e "Tutta colpa di Freud"), è che il regista abbia avuto il genio di portare alla luce qualcosa che era già sotto gli occhi di tutti: la solidità della nostra vita affettiva rischierebbe di essere minata se il contenuto dei nostri telefonini divenisse pubblico. L'idea è poi stata sviluppata a dieci mani in una scrittura puntualissima e affidata ad alcuni degli attori più in voga e preparati del panorama nazionale odierno. Ebbene, ne è uscita una commedia d'impianto teatrale che è senz'altro la migliore tra quelle italiane viste in tempi recenti.
Un gruppo di amici (Marco Giallini, Anna Foglietta, Edoardo Leo, Kasia Smutniak, Valerio Mastandrea, Giuseppe Battiston e Alba Rohrwacher) si ritrova a cena. Tutto procede tranquillamente fino a quando la padrona di casa propone una sorta di gioco: mettere tutti i cellulari sul tavolo e testare se sia vero che i presenti non hanno segreti. La regola è, per tutta la durata del convivio, quella di leggere ad alta voce i messaggi che arriveranno e di mettere in viva voce eventuali chiamate, senza informarne ovviamente chi è dall'altro capo del telefono. Il gioco al massacro ha inizio. Quel che accadrà è piuttosto prevedibile, anche se, in chiusura, c'è un'accelerazione esponenziale degli eventi attraverso vari colpi di scena. Il film è godibile, ritmato, un fluire naturale di battute divertenti e un montare di tensione che fa stare sull'orlo della poltroncina. I dialoghi brillanti hanno il loro climax in alcune frasi semplici, come il "bisogna imparare a lasciarsi" pronunciato a un certo punto dal personaggio di Anna Foglietta, ma che vengono scagliate come coltellate arrivando al cuore dello spettatore. Sì, perché l'empatia col pubblico, nel frattempo, non poteva che scattare, aiutata da un miscuglio equilibratissimo di risate, cinismo e malinconia. Il cast di attori in stato di grazia rende credibile la sensazione di sentirsi seduti lì con loro, a indignarsi, ridere, stare sulle spine. Non beviamo il loro vino biodinamico e non assaggiamo le loro pietanze ma, per il resto, la familiarità che si crea con i personaggi, caratterizzati benissimo, ha dell'incredibile.
"Perfetti sconosciuti" prende le mosse da una frase di Gabriel Garcia Marquez: “Ognuno di noi ha tre vite: una pubblica, una privata e una segreta“, attinge alla migliore commedia tricolore, alcune di Scola o Monicelli per intenderci, ed è incentrata su un tema di assoluta attualità. L'unità di luogo e di tempo, che spesso condanna alla noia lo spettatore che non ama le pièce teatrali, funge qui da amplificatore di coinvolgimento. Il leitmotive dell'eclissi di luna, metafora del lato oscuro, e il finale, un meccanismo di chiusura alla "sliding doors" amaro e raffinato, aggiungono piccole pennellate al significato di un'opera in cui non c'è traccia di moralismo ma soltanto un monito all'uso consapevole di certe appendici tecnologiche.
Il fatto che il film metta a nudo dinamiche non solo dei rapporti di coppia ma anche di quelli tra amici e familiari, nonché certi pregiudizi su omosessualità e dintorni, lo rende materiale altamente infiammabile e c'è già gente che cerca, ad esempio, di occultarne l'esistenza al partner. Inutile.
Il cinema italiano ha finalmente qualcosa da esportare all'estero e di cui è probabile nascano remake.
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