Col suo libro più famoso, Lo scontro delle civiltà, Samuel Huntington riconfermò quanto poco l’America, e le sue élite soprattutto, potevano capirsi solo con l’economia e i discorsi sul Pil. Il libro prese in controtempo, e impreparata, un’intellettualità italiana che non sapeva quanto fosse influente nella cultura anglofona una interpretazione appunto non materialista. Mentre in Europa si rimpiangeva Marx e comunque lo si sostituiva col Pil, dall’America arrivava questo libro, appunto inaudito per la povera intellettualità europea. In esso si parlava di civiltà e ad esse, non ai tassi di crescita o alla globalizzazione, si riferiva il futuro. Era nient’altro che la conferma di come la cultura anglofona, proprio lei, quella delle nazioni più economicizzate continuasse in non piccola misura a ispirarsi a un paradigma rovesciato. A un mondo nel quale erano le culture a definire le distinzioni e le gerarchie, non i rapporti di produzione. La cosa fu mal compresa e ancora peggio sopportata. Del resto chi in Italia sapeva dei libri di Carroll Quigley o dei network anglofoni influenti, ma intrisi di una idea di società che le intellettualità europee snobbavano come desueta? Ed ecco invece che arrivò Samuel Huntington, a parlare come un tedesco dell’Ottocento, a darci una tassonomia del mondo ridotto a culture. Non solo, ma a dire pure che sarebbero state le culture a fare di nuovo lo scenario e non più le ideologie. Come appunto è stato.
Perché l’attentato alle Torri Gemelle di New York è inseparabile dalla rinascita dell’arabismo; gli avvenimenti dei Balcani o quelli della Georgia dalla rinascita delle culture slave. E la Cina non si configura autonoma e gelosa di sé in un ritorno che riguarda del resto non meno potente anche l’India? Insomma dove ci si gira, si vede che ha avuto ragione quel suo libro. Poco politicamente corretto ma efficace perché radicato in una vecchia cultura europea, impensabile senza Hegel o Herder.
E certo gli americani e gli inglesi coi loro Imperi queste idee le hanno usate da sempre meglio di noi europei, rimasti in balia di una sottocultura di marxisti falliti subito convertiti a idee di progresso fittizie e slegate dalla nostra cultura. Con l’effetto paradossale di assecondare l’americanizzazione ma senza mai essersi letti Tragedy and Hope, il grande libro di Carroll Quigley nel quale tutte le tesi del libro di Huntington furono scritte meglio e prima. Con un particolare non da poco. Bill Clinton al momento dell’investitura ringraziò in pubblico il professor Quigley, come la personalità a cui doveva di più nella sua formazione. In effetti l’aveva avviato a capire il mondo col filtro assai poco materialistico delle civiltà. Lo stesso usato da Huntington. E non è piccola cosa il saper che il presidente che più di tutti ha influenzato la globalizzazione e i cui consiglieri sono nell’entourage di Obama, ragionava e ragiona all’antica, in un’ottica di civilizzazioni. E in continuità perfetta con lo storico agire delle élite anglofone.
Mi si permetta di ricordare come prima che la Grande guerra scoppiasse, il ragionare in termini di civiltà, faceva disegnare cartine di come l’Europa sarebbe stata in futuro, assai strane ma veridiche. In una dove era l’Impero degli Zar si scriveva “Stati per esperimenti socialisti”, giacché appunto il socialismo e le rivoluzioni si adattavano meglio alla civiltà degli slavi. Ebbero ragione loro e torto Marx, il quale da dottrinario prevedeva il socialismo in America. Altra riconferma che il mondo va appunto alla rovescia di come ha predicato e predica tutta una certa cultura. La quale soprattutto in Italia iniziò con Gramsci a scimmiottare le apparenze dell’americanismo; nella comprensione fallita dei nessi di potere e di cultura veri dell’America o della Inghilterra. Nessi obliati pure dall’americanismo dei postcomunisti, in deliquio per epopee finte come quelle dei Kennedy, o per l’America dei film o dei liberisti di sinistra. Certo un aspetto del circo americano, perché l’America è anche quello: appunto elegge Obama. Ma non è stata e non è solo quello, si compone anche di network esclusivi nei quali si usa con profitto quella cultura europea che l’Europa invece oblia o di cui si vergogna.
Insomma il professor Samuel Huntington, morto ieri ottantunenne, è stato non solo il politologo che studiò i colpi di Stato o le minacce poste agli Stati Uniti dall’immigrazione, o un neoconservatore. È stato la conferma di una continuità nelle élite che influenzano l’America, che mai si sono vergognate di leggere e usare e Schmitt o Spengler; per citare altri due messi sotto naftalina in Europa.
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