Finti liberalizzatori, veri protezionisti

Non vorrei sminuire il lavoro del ministro Bersani che ha appena presentato in Consiglio dei ministri provvedimenti definiti liberalizzatori. Il ministro saprà già, però, che l’aver coinvolto i barbieri mettendone a rischio l’ozio del lunedì gli ha provocato la definizione di «liberale del Figaro». Solo una battuta, che però acquista peso con la coincidenza fra l’approvazione delle sue misure e la presentazione al Senato da parte di Rifondazione comunista di una proposta di legge che si propone di calmierare la proiezione, nelle nostre sale cinematografiche, dei film «extracomunitari», che sarebbero poi i film americani i quali hanno il torto di spopolare e dunque di fare una concorrenza vincente ai film europei e, va da sé, a quelli italiani.
È di qualche consolazione che tanti registi, attori, critici, abbiano usato aggettivi quali assurdo, demenziale, pazzesco per definire una proposta tanto irragionevole quanto illiberale. E però, il discorso non può finire qui. Perché a firmare la legge sono stati 27 senatori del partito di Bertinotti. E poiché 27 sono in totale i senatori di Rifondazione, ne consegue che l’idea di regolare per legge dove gli italiani debbano passare le loro serate quando decidono di andare al cinema è pur sempre la proposta di un partito fra i più influenti tra quelli che compongono il patrio governo.
Insomma, non siamo alla presenza di un Edoardo Sanguineti poeta ermetico che decide di resuscitare l’odio di classe. Anche perché il povero Sanguineti non pretende di sostenere le sue mattane con leggi dello Stato. E poi. Il dispositivo della legge indica che si va nel dettaglio, che per esempio per film italiano al quale dedicare la metà delle proiezioni si intende che il film sia girato in Italia, che italiani siano il regista, gli attori principali, la gran parte degli attori secondari, gli sceneggiatori, l’operatore, il montatore e non so chi altro. Se ne deduce che la proposta è il prodotto di un lavoro di équipe, che qualcuno si è messo lì a studiarla, qualcuno che il cinema un po’ o tanto lo conosce nei meccanismi.
E le finalità di tanto pensare, appaiono abbastanza chiare. Fra queste, oltre al sospetto, diciamo così, di un’ispirazione che ha quale fonte il sentimento, rigoglioso a sinistra, dell’anti-americanismo, si aggiunge la certezza dell’esistenza, nel nostro Paese, di un orientamento che vuole imporre al cinema e alla cultura, una mordacchia dirigistica, facendo dello Stato, con le sue leggi, uno strumento ordinatore. Il senatore Russo Spena, capo-gruppo al Senato dei rifondatori del comunismo, teorizza la sua proposta affermando che il mercato è da regolare in quanto «non è spontaneo, ma indotto, il pubblico gradisce perché non ha alternative». E dunque, l’alternativa chi ce la dà se non lui, Russo Spena, e il suo partito? Roba da gosplan che, era poi l’ufficio incaricato, in Urss, di redigere i piani quinquennali che per settant’anni hanno infelicitato il popolo russo.
E non si tratta solo del cinema. Sappiamo dal servizio di qualche giorno fa di Gianni Pennacchi della esistenza di una seconda proposta che estende alle reti Tv l’obbligo di mandare in onda una metà di film italiani, e di farlo nella prima serata. E qui non siamo affatto tranquillizzati dall’idea che una legge siffatta non si farà perché per imporre una pratica di questa natura non c’è bisogno di alcuna legge, basta un saggio uso del manuale Cencelli.

E non meraviglia la coincidenza fra il parlare che si fa di liberalizzazione e la voglia di mettere la mordacchia alla cultura, ove da tempo l’egemonia si è trasformata in pura occupazione del potere.
a.gismondi@tin-it

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