«Flauto magico», ecco perché tanti fischi

Antonio Cirignano

da Torino

La pazienza dura un atto. All’inizio del secondo i dissensi che fin dalla prima accompagnano l’allestimento torinese del Flauto magico di Mozart - in scena al Teatro Regio fino al 24 dicembre - esplodono puntuali. «Basta! Parlate troppo! Vogliamo la musica! Buuu!». Le grida investono gli attori, chiamati a sostituire i dialoghi parlati dell’originale con una drammaturgia reinventata di sana pianta da Alessandro Baricco. La platea si divide. Gli spettatori più giovani, dai palchi, entrano subito nella parte dei Baricco-boys e contestano la contestazione: «Bravi! Andate avanti!».
Si procede con molti mugugni. Qualcuno abbandona la sala. La musica mette tutti d’accordo: merito di Fabio Biondi alla guida dell’orchestra e coro del Regio. Merito di una compagnia vocale di buon livello, che ha nell’ottimo Papageno di Nicola Ulivieri il suo fiore all’occhiello. Ma la storia parallela che gli attori inscenano interrompendo continuamente lo svolgimento musicale è difficile da mandar giù. Un sindaco di paese, un impresario e un amministratore si danno da fare per allestire un’opera. Il Flauto magico che vediamo ne è la «prova generale». Purtroppo il sindaco, che dovrebbe incarnare lo spettatore medio, si pone le domande di un perfetto cretino: e perché cantano in tedesco? non faranno mica dlen dlen col clavicembalo? e perché quello suona il glockenspiel invece di guardare la televisione? Ciò che sorprende, delle polemiche sorte attorno a quest’opera, è che quasi tutte fanno torto all’intelligenza di Baricco.
Per noi la spiegazione è un’altra: l’ha fatto apposta. Uno come lui non può davvero pensare che la gente rida se sente il nome di Monostato storpiato in Monossido, almeno non in assenza di un Totò. E non può nemmeno dare del cretino al suo pubblico «involontariamente». Se lo fa è a ragion veduta. E le ragioni si possono non condividere - noi non le condividiamo - ma vanno rispettate. Baricco ha una visione tutta sua del Flauto magico (una cosa per bambini, niente simboli massonici) e un’idea altrettanto personale del rapporto fra opera e modernità (nulla è sacro). Il suo lavoro non funziona, ma ha portato il compassato pubblico dell’opera a fischiare e a fare il tifo come ai tempi di Verdi, e questo è esattamente ciò che si voleva. Missione compiuta. Per riuscirci era necessario uno spettacolo brutto? Siamo convinti di no, ma per ora il Regio ha raggiunto il suo scopo così. Con una regia (Oskaras Korsunovas) insulsa e una scena noiosa (una giostra da lunapark in palcoscenico dall’inizio alla fine).

Con una recitazione, quella della compagnia I Turbolenti, sempre urlata e isterica, fastidiosa. Con una operazione che nel suo complesso dichiara piena sfiducia nella possibilità attuale di rivitalizzare l’opera senza tradirla. Tutto questo suscita polemiche? Ben vengano, ce n’è bisogno.

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