Ora che i «liberal» del Pd gli hanno chiesto le dimissioni da responsabile economico del partito, Fassina è sotto i riflettori. Quello che pareva solo un refuso comincia ad acquistare una fisionomia. La vicenda si inquadra nella crisi economica, gli spread galoppanti e lo scompiglio provocato nel Pd dalla comparsa di Mario Monti.
I fatti, che risalgono a 48 ore fa, sono noti. Nel Pd esiste una corrente, detta Liberal (!), entusiasta del governo Monti. Sono riformisti e moderati - come se ne trovano qua e là nel Pd - che si contrappongono ai veteromarxisti tra i quali spicca Fassina. I liberal gli chiedono in un comunicato di sparire poiché le sue posizioni economiche rispecchiano quelle delle ali estreme e non le loro. Gli rimproverano di schierarsi con Camusso, Cgil e vendolismi vari (no, alla riforma del lavoro, delle pensioni, ecc.) mentre boicotta il rigore di Bankitalia, Bce e gabinetto Monti. Una critica da destra al pan sindacalismo cavernicolo del Nostro.
Stefano Fassina è un quarantaseienne milanese, diplomato in Economia alla Bocconi, l’Ateneo da cui è uscito e che oggi presiede Monti. Ciascuno è in realtà bocconiano a modo suo e secondo un compagno di studi di Stefano lui era «bocconiano sì, ma che occupava le aule». Con la laurea, lo Stato consegnò Fassina al partito (Pds prima, Pd poi) che ne ha completato l’opera formativa. Così, la sua figura emerge dai dagherrotipi in bianco e nero delle Botteghe Oscure, con gli esperti fatti in casa, gli intellettuali organici e i cipigliosi funzionari di partito. A mettere gli occhi su di lui, sono Vincenzo Visco e Pier Luigi Bersani, sodali nel think tank Nens (Nuova Economia Nuova Società). È il luogo dove si elaborano le super tasse di cui Visco fu prodigo e anche, cerchiobottescamente, le lenzuolate liberalizzanti di bersaniana memoria. Stefano entrò nel pensatoio, il sinistrismo gli entrò nei pori e anni dopo sarà direttore scientifico di Nens. Intanto, il partito (D’Alema benedicente) lo introdusse nei santuari del potere repubblicano e internazionale. Dal ’96 al ’99, fu al Tesoro come consigliere di Ciampi. Col governo del Berlusca, primi anni Duemila, emigrò a Washington al Fmi. Ma fu di nuovo tra noi col gabinetto Prodi II e a fianco del tutore Visco, viceministro delle Finanze, coadiuvando ad alzare la pressione fiscale di due punti in due anni (2006-2008). Col ritorno del Cav a Palazzo Chigi, è stato promosso responsabile economico del Pd.
Per un annetto scelse il basso profilo. Cosa che gli era stata raccomandata, perché è di carattere brusco e fa gaffes come respira. Al Nazareno (sede Pd) lo chiamano Forrest Gump per il prodigioso istinto di dire le cose sbagliate nel momento più infausto. Poi con la crisi, si è però lasciato andare, scagliando anatemi contro il mercatismo dell’Ue, il rigorismo affamatore di Merkozy, eccetera. Da allora, i sinistri del Pd lo considerano un eroe. La linea piace anche a Bersani, ritenendo che le sue intemerate anticapitaliste coprano il Pd a sinistra. In sostanza, riecheggiando le posizioni più estreme, evita - così pensa il segretario - che gli scontenti finiscano in braccio a Vendola & co. Il fassinismo, in realtà, è stato condiviso da tutto il partito finché non è comparso il governo tecnico. Ora è entrato in crisi, perché molti nel Pd si sono allineati e scoperti tecnocrati.
Stefano, invece, è rimasto indietro e ha messo il broncio a Monti. Qui ha giocato anche l’affetto per Bersani che ha il governo sul gozzo, perché ne stronca le ambizioni di premier. Sta di fatto che l’imprudente Fassina non le ha mandate a dire, pregando il professore di togliere il disturbo in fretta e farci votare tra sei mesi. Il segretario, timoroso di passare per l’ispiratore, lo ha supplicato di smussare gli angoli. Ma, ormai, Fassina si è fatto nemici. Non nel centrodestra dove non se lo fila nessuno o è visto come un panda. A sinistra invece sì, come dimostra il benservito liberal. Napolitano, da europeista militante e paraninfo del governo, lo vede come la peste. Altri va a cercarseli. Poiché non sopporta Matteo Renzi, che è il suo opposto, lui bielorusso, l’altro yankee, lo sfruguglia: «È un figlio di papà e un portaborse miracolato». L’altro l’ha mandato a stendere: «Non mi faccio dettare la linea da un signore che non prenderebbe voti neppure dall’assemblea del condominio del suo palazzo». Per non farsi mancare nulla, ha preso di petto pure il Corsera chiedendogli conto del perché avesse ignorato il suo piano di riforme, alternativo a quello di Tremonti. I toni ultimativi hanno fatto saltare la mosca al naso del direttore De Bortoli che gli ha dato una strizzata: «Caro Fassina, le vostre proposte sono così innovative che passano inosservate. E lei che sa che il Corriere è aperto a ogni vostro contributo. Anche il più inutile. È accaduto spesso».
Poiché però non può sbagliarle tutte, Fassina - diversamente dai vari Letta (Enrico) e compagnia che paiono miliziani di Merkozy - insiste sul fatto che i sacrifici siano compensati da una Bce meno prussiana. E a noi - a me, come al Giornale - ci va a fagiolo.
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