La vicenda del Sant’Agostino assegnato a Caravaggio da Silvia Danesi Squarzina la settimana scorsa (sul «Domenicale » del Sole 24Ore ) si arricchisce di un nuovo capitolo, scritto dal Guardian di ieri. Il dipinto che la storica dell’arte romana aveva dichiarato provenire da una collezione privata spagnola era in realtà, come aveva già spiegato Maurizio Marini, conservato in una quadreria britannica. In attesa di capire il perché di questa divergenza, registriamo che, primadegli articoli di Vittorio Sgarbi e del sottoscritto sul Giornale , mirati a smontare l’attribuzione rispettivamente sotto il profi-lostilisticoedocumentario, latela era stata scoperta (secondo quanto riporta il quotidiano londinese) di un celebre dealer di Mayfair, Clovis Whitfield, proprietario di una nota galleria d’arte in Dering Street.
Per chi ama le vicende degli antiquari dotati di un fiuto eccezionale, e capaci di intuizioni fulminanti, quali il fiorentino Corsini e le sue proverbiali attribuzioni a Tiziano, Clovis Whitfield rappresenta una sorta di pietra di paragone. C’è chi considera alcune sue idee geniali, altri invece le rubrica nel novero delle cantonate. Di certo Whitfield è uno dei più appassionati cacciatori di succulenti Caravaggio novelli. In questo caso Whitfield sembrerebbe essere il prime mover , avendo segnalato come possibile autografa l’opera già prima del restauro. E se in Italia il dipinto ha incassato soprattutto dei secchi no (tra gli altri, quelli del già citato Marini, di Tomaso Montanari, di Nicola Spinosa, Keith Sciberra e Ferdinando Bologna) all’estero sembra aver trovato più di un consenso. Per esempio quello di Sebastian Schütze,professore di storia dell’arte all’Università di Vienna. Il quale dichiara: «Non è mai stato pubblicato. Quello che sembrava il lavoro di un anonimo del XVII secolo ha rivelato le sue qualità artistiche dopo il restauro ». Il che comunque non è come dire «Si tratta di Caravaggio ».Né d’altronde alle nostre latitudini nessuno s’è sognato di liquidarlo come una crosta, visto che in molti hanno speso il nome del raffinato caravaggista di seconda generazione Bartolomeo Cavarozzi ( e su questa sorprendente concordia nell’attribuzione a un maestro così poco conosciuto ci sarebbe a sua volta da fare qualche congettura, visto che in giro ci sono almeno un paio di dipinti assegnati al Merisi che invece sono da ricondurre al pittore viterbese).
Anche David Franklin, direttore del Cleveland Museum of Art, ha offerto il suo parere, giudicando la scoperta importante perché totalmente inedita: «Anche la composizione non è registrata in altre copie. Spesso un originale perduto è conosciuto proprio attraverso le copie, ma non questo. Quel che è interessante è che si tratta di un immagine piuttosto tradizionale. Forse è per questo che non è stato riconosciuto sino a oggi. Ci mostra un Caravaggio non così brutale e controcorrente come suo solito, forse perché in questo caso può aver lavorato fianco a fianco col Giustiniani per creare un’immagine di santo più aderente all’iconografia ». È curioso questo ragionamento di Franklin. Il Sant’Agostino è insomma un Caravaggio tanto più interessante perché non sembra Caravaggio. È un po’ più bigotto, meno brillante nella composizione, e curiosamente non se ne conoscono copie antiche, al contrario della grandissima parte delle opere del maestro. Non ha quasi nulla insomma di Caravaggio, ma visto che con tanta evidenza lo è, è ancor più stupefacente. Il dipinto, che, stando sempre al Guardian , è rimasto nella Collezione Giustiniani sino alla metà del XIX secolo, verrà pubblicato a luglio in un testo dedicato a Caravaggio e i suoi seguaci romani, a cura dell’Università di Yale, in associazione con la National Gallery del Canada. E in effetti l’inedito è esposto a partire da questi giorni a Ottawa. Ancora Silvia Danesi Squarzina raccomanda caldamente di vederlo di persona, prima di pronunciarsi, come avrebbe fatto il grande Roberto Longhi.
Certo lo storico dell’arte albese avrebbefatto un po’ di fatica nel considerare una prova certa che si tratta di un Caravaggio autentico il fatto che sia citato nelle fonti, e in particolare nell’«Inventario Giustiniani del 1638», a dire della Squarzina il più preciso, perché mutuato degli appunti presi direttamente dal marchese Vincenzo, mecenate e collezionista sommo del Merisi. Che è un po’ come affermare che le reliquie dei santi sono autentiche perché corrispondono in linea di massima alla descrizione che ne viene fatta nelle Scritture. Quale sia il rapporto, evidentemente di natura mistica, che intercorre tra l’opera e il documento, non è dato capirlo. Forse un cartiglio, che rimanda alla collocazione in uno dei palazzi in cui era conservata la collezione Giustiniani, senza alcuna indicazione peraltro né dell’autore né dell’epoca. Dopo il presumibile bagno di folla in Nord America,l’opera figurerà nella mostra «Roma al tempo del Caravaggio», in programma a novembre a Palazzo Venezia. In attesa delle forche capitoline, potrà ballare almeno un’estate. Da parte nostra auspichiamo che in quella sede, e nel simposio di studi che seguirà, sia esposta unitamente a quello che dovremmo considerare il suo «pendant mancato» o il suo«gemello diverso».Una tela, questa sì al 99% di Caravaggio, raffigurante San Gerolamo, conservata nel monastero di Montserrat, e che compare nell’Inventario Giustiniani con le stesse dimensioni e caratteristiche del Sant’Agostino ( le due tele costituivano una coppia).
Ma chi ha visto le loro foto affiancate non ha potuto che esclamare, come Johnny Stecchino, «Non le somiglia per niente!».
Il fatto è che anche in questo secondo caso l’associazione tra il dipinto e il documento è del tutto arbitraria, anche se più sensata.C’è insomma una questione di metodo, alla base di questo pasticcio. Ma come spiegarlo agli storici dell’arte?- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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