Frattini: «L’Ue deve intervenire Servono leggi per l’integrazione»

Il vicepresidente della Commissione europea: «La forza e la repressione non bastano. Assurdo giustificare i violenti come fa la sinistra francese»

Alessandro M. Caprettini

da Roma

Soddisfatto? Be’, certo, quelle due lettere dei ministri di Danimarca e Olanda che avevano a suo tempo rifiutato di prendere in considerazione la sua idea di affrontare il tema dell’integrazione in chiave europea e che, qualche giorno fa, gli hanno notificato il loro pentimento, non è che gli dispiacciano. Ma Franco Frattini non si ferma all’«avevo ragione io». Insiste perché l’Europa, e non i singoli Paesi, si doti il prima possibile di una risposta politica comune ai problemi evidenziati dai roghi della banlieue parigina. «Visto - nota dall’altro capo del filo il vicepresidente e commissario Ue alla libertà e alla giustizia - che a Bruxelles e Berlino si evidenziano già segni di contagio? È chiaro che, se rimaniamo fermi, i focolai potrebbero essere appiccati un po’ dappertutto...».
Adesso pare ci si renda conto che il problema ha dimensioni sovrannazionali. Perché quando lei pose la questione le risposero picche?
«Pensavano di poter far da soli. Il no tedesco, per esempio, fu molto deciso in tal senso. Ma a questo punto è chiarissimo che si tratta di un fenomeno comune a molti Paesi le cui risposte nazionali si sono mostrate inadeguate. Sostanzialmente si procedeva fin qui con il modello francese, quello dell’assimilazione, o con quello belga-olandese del multiculturalismo. Non hanno funzionato, nessuno dei due. E l’integrazione resta una sfida da vincere perché non possiamo pensare a una risposta come il coprifuoco perenne o la sorveglianza dei centri urbani notte e giorno».
Trovare una soluzione: facile a dirsi, ma poi...
«No guardi non è così difficile. Sono a Boston per lavoro e giusto ieri discutevo dei riote parigini ad Harvard con insegnanti e studenti. Erano meravigliatissimi di quel che accade in Francia. Perché qui, e parlo di seconde o terze generazioni, si sentono tutti fortissimamente americani. Loro vedono quella a stelle e strisce come la loro bandiera, si sentono cittadini di questo Paese anche se hanno radici diverse».
Non è che Oltreoceano ti tagliano le radici costringendoti a diventare americano?
«Ma per nulla. C’è grande rispetto e attenzione per la tua provenienza e c’è integrazione reale: qui per esempio sono molte le donne mullah, che chiamano alla preghiera. Ma alla base di tutto c’è il fatto che chiunque tu sia e comunque la pensi devi osservare le leggi di questo Paese. In Europa ci si è lasciati andare: penso all’Olanda di qualche anno fa, quando in nome della “diversità” degli immigrati in fondo si potevano anche violare le regole... È un po’ quel che accade in Francia anche oggi: i figli degli immigrati maghrebini in definitiva che fanno? Bruciano le loro scuole, le auto della propria comunità, gli scuolabus. Perché non la ritengono roba loro. Qualcuno ha pensato che bastasse offrire loro un passaporto. E c’è di peggio: sento che nella sinistra francese prende piede il discorso del “bisogna capirli”. Assurdo e pericolosissimo».
Traslando il problema in Italia si può dire che lei è in linea con Cofferati o sbaglio?
«Il sindaco di Bologna ha perfettamente ragione. Trovo gravissimo che si arrivi ad aprire un dibattito in consiglio comunale sul fatto che la legge debba esser rispettata o no».
La legge al primo posto dunque. Anche se qualcuno mostra renitenza all’uso del pugno di ferro?
«L’uso delle forze dell’ordine è la prima reazione, urgente e necessaria. Poi occorre metter mano a una strategia politica seria. Quale? Avevo proposto di stanziare 1 miliardo e 700 milioni di euro proprio per aiutare i governi nelle politiche dell’integrazione. Aiutare gli immigrati a imparare la lingua del Paese in cui vivono, fare corsi di educazione civica con, in bella evidenza, i propri diritti ma anche i propri doveri. L’Europa è un insieme di valori: se ci si vuole stare, li si deve rispettare. E ancora credo si potrà fare quel Forum internazionale annuale sull’integrazione voluto da alcuni sindaci, in prima battuta quelli di Rotterdam e Lione che già da tempo premevano in questa direzione.

Nel 2006, saremo nella città olandese per studiare coi governi locali - più in prima linea che gli Stati - che cosa sia possibile fare. L’anno successivo mi piacerebbe che si potesse tenere a Roma o Milano. Aspetto proposte».

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