Con Fusco, quando si stava peggio ma si mangiava meglio

Vermicello, maccherone, spaghetto, trenette, lasagna o tagliatella, l’importante è che non sia scotta. Alla «norma», al pomodoro, amatriciana o alla chitarra, il bello è che gamberetti, rucola, sushi e carpacci non erano ancora approdati sulle tavole nostrane. Qui si parla di pasta. La più italiana delle invenzioni si intreccia con personaggi dell’Italia fascista, quando si stava peggio ma si mangiava meglio (quando si mangiava). I racconti sono tessuti dalla sapiente penna di Gian Carlo Fusco, ritrattista superbo e grande inventore di storie e storielle. Vere o verosimili, di sicuro molto realistiche, le vicende narrate in questa Italia al dente (edito da Sellerio), sono gustosissime. Dall’Imaginifico D’Annunzio a Dino Buzzati ed Emilio Radius, dai gerarchi ai militari, dal nobile siciliano passando per le sue personali vicende familiari, i personaggi che popolano le pagine di Fusco sono dei veri cammei, dove il fantastico e il reale si mischiano come la vicende dell’autore medesimo, di cui la leggenda è ormai inscindibile dalla verità. Il fenomeno Fusco, di cui la Sellerio (e in parte anche Einaudi) stanno riproponendo l’opera, è ammantato da un’aurea quasi mitologica. A scoprirlo fu Manlio Cancogni, che segnala a Mario Pannunzio, allora direttore del Mondo, il talento poetico nascosto negli articoli che apparivano sulla Gazzetta di Livorno di un oscuro giornalista spezzino, male in arnese, ex pugilatore, frequentatore di bordelli, donnine allegre, locali notturni, grande bevitore. Chi l’ha conosciuto e ha scritto di lui nel corso degli anni (in primis Camilla Cederna, ma anche lo stesso Cancogni, Natalia Aspesi, Beppe Benvenuto), ci dà l’immagine di un istrione, uno sbruffone geniale, un fantasioso bugiardo, che per la gran dose di alcool ordinato il distributore di una nota grappa pensava fosse un bar, il «Bar Fusco», appunto. Oppure lo sfasciato scrittore prestato al giornalismo per sbarcare il lunario, del quale ci si sofferma su particolari sempre eccentrici: la bocca con soli due denti, i sandali aperti, i pantaloni tenuti in vita con il fil di ferro e la frequentazione dei malavitosi di Marsiglia.
L’Italia al dente, che lo stesso Fusco definisce un «libro quasi commestibile», è dedicato a due galantuomini nati e vissuti alla fine dell’Ottocento in Campania. Uno è Giovanni Voiello. L’altro è Raffaele Fusco, nonno paterno. Uno fondatore nel 1879 del celebre pastificio di Torre Annunziata. L’altro, nato nel 1840, direttore didattico, grande giocatore di zecchinetta a San Lorenzello, provincia di Benevento. Sessantadue chilometri in linea d’aria hanno diviso le vite dei due personaggi, che non si conobbero mai, ma Fusco li fa incontrare idealmente grazie ai pacchi di spaghetti trasportati nella valigia dello zio Pietro Paolo, il maggiore dei figli di Don Raffaele, studente di medicina a Napoli dove si imbatte nel prezioso manufatto. Ogni due settimane, quando rientra a Lorenzello, il ragazzo porta al padre la riserva della pasta: il genitore ne consumava 6 chili alla settimana. Rimasto vedovo, anche quando il figlio ormai laureato aveva smesso di fare la spola con Napoli, nonno Raffaele riuscì a procurarsi la sua dose di pasta Voiello. E fino alla morte nel 1919, una donna di famiglia andò tutti i giorni a cucinargli 250 grammi di spaghetti, al pomodoro e annaffiata con vino. Ovviamente al dente.
Sarà storia vera? Non lo sapremo mai.

Come non sapremo se il racconto che apre questa pagina (e anche il libro) è un aneddoto uscito dalla fantasiosa mente di Fusco o un episodio familiare cotto a puntino dalla penna dell’autore. Anch’esso al dente, ovviamente.

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