Le gabbie d'amore di Lavia allo Strehler. Quando la famiglia è una tragicommedia

In scena "Lungo viaggio verso la notte" di Eugene O'Neill

Le gabbie d'amore di Lavia allo Strehler. Quando la famiglia è una tragicommedia
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Eugene O'Neill è il fondatore del teatro americano che in Italia ha vissuto, negli anni '70-'80 del secolo scorso, un momento di notorietà, grazie anche alla pubblicazione di Einaudi di tutto il suo teatro e grazie ad alcune messinscene memorabili come «Arriva l'uomo del ghiaccio», regia Luigi Squarzina, con un cast stellare, o come: «Strano interludio», nelle due versioni, di Giancarlo Sbragia e Luca Ronconi. Del «Lungo viaggio verso la notte» non solo va ricordata la versione radiofonica che debuttò nel 1957, con Renzo Ricci, Eva magni, Giancarlo Sbragia, Glauco Mauri, ma anche quella teatrale che vidi, nel 1966, al Teatro San Babila.

C'è da dire che si tratta del testo più frequentato sui palcoscenici italiani, basterebbe ricordare l'edizione di Squarzina (1974-75), con Lilla Brignone, Alberto Lupo, Eros Pagni, Luigi Diberti; quella di Missiroli con Anna Proclemer, Gabriele Ferzetti; quella di Carmelo Rifici, al Filodrammatici, (2006) con Marco Balbi e Claudia Giannotti; quella di Arturo Cirillo, anche interprete, con Milvia Marigliano (2016). Perché questo testo ha attratto anche Gabriele Lavia (nella foto)? Forse perché ha voluto incontrare due grandi vecchi come Lear e James Tyron e riflettere sul perché si diventi vecchi, sul motivo per cui la vita decide di punirti, pur non avendo commesso nessuna colpa, mostrandosi ingiusta. Oppure ha voluto capire in che modo la vecchiaia venga condivisa in una famiglia che ha molti problemi da risolvere e che vive come in una gabbia, dentro la quale ci si comporta come degli animali feroci. Ricordo una sua versione del «Padre» di Strindberg con i protagonisti che si muovevano dentro una gabbia di leoni. Essendo Lavia convinto che siamo noi a sceglierci il tipo di gabbia, per «Lungo viaggio verso la notte», in scena al Teatro Strehler da oggi a sabato, ne ha scelta una molto simbolica che si erge su tutta la scena, firmata da Alessandro Camera, come a dire che l'uomo, fra le tante costruzioni, è anche un costruttore di gabbie per nuclei familiari, nelle quali, viverci dentro potrebbe essere anche un atto d'amore e non solo di odio, sentimenti che generano dipendenza, come la morfina per Mary. Nella gabbia Lavia ha messo i due figli: Jacopo Venturiero e Jan Gualdani, la cameriera, Beatrice Ceccherini, oltre che la moglie, interpretata da Federica Di Martino che in questi ultimi anni si è cimentata con protagoniste femminili difficili, come Laura («Il Padre» di Strindberg), Ilse («I giganti della montagna» di Pirandello), Giannina («Un curioso accidente» di Goldoni), con ottimi risultati.

Lavia ha lavorato non sui temi ma sulle cause che non sono la cialtroneria dell'attore, l'autobiografismo, l'avarizia di James, quanto la solitudine, l'indifferenza, l'incapacità di amare, sebbene, a loro modo, si amassero. Un amore che si manifestava in modo non consueto, anche odioso.

Allo stesso modo, ha chiesto a sua moglie Mary, di non essere patetica, ma di trasformare il bisogno di morfina in un bisogno d'amore; di una cosa, però, era consapevole, che la vita non si possa sopportare se non a patto che si riesca a evadere, chi nell'alcool, chi nella morfina, chi nella ricerca della poesia. Nelle sue note di regia Lavia ha scritto: «Le vite degli uomini sono fatte di tenerezza e violenza, di amore e disprezzo, di comprensione e rigetto, di famiglia e della sua rovina».

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