Il ministro Calderoli è uomo di lombarda bonomia, che talora potrebbe apparire svagata, ed invece ottiene ogni volta per la Lega qualcosa. E questo suo rilancio delle gabbie salariali va pertanto spiegato come la proposta delle bandiere regionali: è idea utile a radicalizzare il federalismo, a tenerlo in tensione. Serve a lambire il più possibile i confini della secessione, per contrattare più potere al Nord. Ma giudicata in sé la proposta deve invece riconoscersi per quella che è: un’idea sbagliata nel momento peggiore. Infatti è una grave ingenuità il riferire i salari al costo della vita.
Fosse davvero quello il problema: saremmo nel Paese dei balocchi di Collodi. I costi farebbero i salari, e non ci sarebbe che da adeguarli: solo la malvagità di pochi s’opporrebbe alla bisboccia universale. Duole invece il dover ricordare, ch’è la produttività a fare i salari. E appunto perciò il governo, agendo con qualche buon senso, ha aiutato i contratti aziendali e territoriali con la detassazione delle parti di salario connesse alla produttività. È questa semmai la strada sulla quale insistere. A meno che la provocazione del sempre perspicace Calderoli non sia mirata agli statali del Sud. Il prodotto del lavoro di tutti gli statali non si vende infatti sul mercato, ma si stima per il suo costo. Dunque l’idea potrebbe servire a sfogare un rancore contro la burocrazia borbonica, togliendole privilegi e non solo per punirla. E però adesso ne risulterebbe così ancor più rinforzato il suo carattere provocatorio. La Sicilia di Lombardo che plaude alle bandiere sicule, e forse riottiene un po’ dei soldi di cui s’è sentita privata, non potrebbe digerire la norma. E dubiterei che le cose migliorerebbero; malgrado la non grande stima che chiunque in Italia ha per gli uffici meridionali almeno dai tempi di Federico II. E infine, si viva in Islanda o a Termini Imerese, va detto: per ridurre i salari questo è il momento più sbagliato, e anzi ridicolo. Già ci pensa una crisi, che speriamo si quieti, ma intanto procede tremenda. E fa più male dove non si vede.
La crisi infierisce e devasta infatti non tanto il lavoro più caro a Marx, quello dipendente, ma fa soffrire per ora più il gran polmone del lavoro autonomo e delle imprese migliori. Ed è un aspetto questo al quale troppo poco ora si bada. Perché la diversità di questa crisi la senti proprio quando incontri l’amico grafico o pubblicitario; e serio lui ti dice che spera di salvare almeno la casa dalle pretese della banca. E come poi fa rumore il silenzio di quelle legioni di imprenditori che hanno investito e passano notti insonni in lotta contro il fallimento. Non c’è dubbio: a questa fascia di milioni di operosi, adesso in lotta per la vita, non può e non potrebbe importare meno delle gabbie salariali. E va bene che la Lega è proletaria: deve dunque recitare pure la parte ch’era dei comunisti.
Ma questa crisi attacca intanto proprio gli elementi più attivi, originali dell’economia italiana.
In conclusione a nulla serve quest’idea calderoliana, dalla quale sarebbero premiati solo gli statali del Nord, che sovente tra l’altro del Nord non sono. Sono invece idee come quelle della moratoria dei debiti, quelle alle quali seguitare a lavorare.E urgenti.
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