In anticipo sulle celebrazioni per il centocinquantesimo dell’Unità, si susseguono i saggi dedicati a quell’evento, e alle sue implicazioni o complicazioni. Con il suo eccellente Il sangue del sud (non ne condivido al cento per cento le tesi ma ne ammiro la serietà) Giordano Bruno Guerri ha affrontato la questione del Meridione e del «brigantaggio». Un saggista di ancor più lungo corso, Arrigo Petacco, racconta ciò che accadde dal 1861 al 1870 nel suo O Roma o morte, Mondadori editore (pagg. 156, euro 19). Mi piace di Petacco - nel furoreggiare di libri che insistono sulle nefandezze risorgimentali - il rispetto per gli ormai spregiatissimi padri della patria. Del resto anche il già citato Giordano Bruno Guerri ha ironizzato sui «cantori della diversità meridionale, calpestata dalla barbarie sanguinaria dei piemontesi, dipinti come antesignani dei nazisti, mentre il passato borbonico viene riletto in modo addirittura apologetico».
Pare ci sia perfino bisogno, ormai, di difendere Cavour. Un genio la cui morte prematura fu di sicuro tra le cause di troppi errori dell’Italietta. Il conte aveva in mente un progetto «federalista» che avrebbe dovuto modificare profondamente lo Stato centralizzato di stampo napoleonico. Non potè realizzarlo. I migliori uomini di quella stagione che ebbe luci e ombre ma fu straordinaria non si nascondevano le difficoltà derivanti dall’annessione del Regno delle due Sicilie. Scriveva Massimo D’Azeglio, un paio di mesi dopo la fine improvvisa di Cavour, al ministro Carlo Matteucci: «Ci vogliono, e pare non bastino, sessanta battaglioni per tenerci quel regno, mentre e notorio che, briganti o non briganti, i napoletani non ne vogliono sapere di noi. Tu mi dirai, e i plebisciti? E il suffragio? Io non so niente di suffragi, ma so che di qua dal Tronto non ci vogliono sessanta battaglioni, ma di là sì... D’altronde, altri italiani che rimanendo italiani non vogliono unirsi a noi non abbiamo il diritto di prenderli ad archibugiate».
Nella polemica -speso eccessiva e pretestuosa- sul come l’Unità fu fatta e sul perché fu fatta a quel modo, Petacco non si schiera. Preferisce raccontare molto bene gli avvenimenti e sottolineare aspetti meno noti o meno insistiti di protagonisti del Risorgimento. A cominciare da Giuseppe Garibaldi, che una certa storiografia riduce a macchietta sudamericana e che il revanscismo meridionalista colpevolizza per essere stato anticlericale e massone e per avere infierito sulle popolazioni siciliane. Oltre confine, e oltre oceano, questo guerrigliero turbolento e amatissimo aveva una fama ce un prestigio che nessun altro italiano, negli ultimi secoli, ebbe prima di lui e dopo di lui.
Il 12 aprile 1861 era scoppiata negli Stati Uniti la guerra di secessione Il 21 luglio di quell’anno i quotidiani americani pubblicarono un accorato appello di Abramo Lincoln «all’eroe della libertà perché presti la potenza del suo nome, il suo genio e la sua spada alla causa della repubblica confederata». Garibaldi -che aveva anche la cittadinanza americana- informò Vittorio Emanuele dell’offerta, e il Re rispose, tramite un aiutante di campo, con dignità: «Faccia quello che ispira la sua coscienza, che è sempre il solo giudice in affari di grande momento. Qualunque sia la decisione che ella prenderà, sono certo che non dimenticherà la cara patria italiana». Come condizione per poter essere il generalissimo dell’esercito di Lincoln Garibaldi pretese l’autorità di dichiarare l’abolizione della schiavitù «perché senza questa giustificazione si tratterebbe semplicemente di una guerra civile».
La partenza del generale fu scongiurata da un pellegrinaggio a Caprera di compagni d’arme - tra loro Francesco Crispi e Nino Bixio. L’idea che Garibaldi potesse essere il condottiero dei confederati americani si riaffacciò dopo che, ferito sull’impervio Aspromonte dalle truppe regie, l’eroe dei due mondi fu condotto prigioniero nel golfo della Spezia dove tra l’altro esisteva una task force della marina statunitense, là installata per combattere nel Mediterraneo la pirateria barbaresca che insidiava le navi americane. L’ambasciatore degli Usa a Vienna, Theodore Canisius, fu incaricato di prendere contatto con Garibaldi e di riferirgli che «il governo degli Stati Uniti è disposto a offrirgli il comando di un’armata col grado di maggior generale dell’esercito, con lo stipendio relativo, e con la cordiale accoglienza del popolo americano». «Sono prigioniero e gravemente ferito-rispose Garibaldi- credo però che se sarò rimesso in libertà e se le mie ferite si rimargineranno sarà arrivata l’occasione favorevole in cui potrò soddisfare il mio desiderio di servire la grande repubblica americana che oggi combatte per la libertà universale». L’accordo poi fallì, per complicazioni diplomatiche estranee alla volontà di Garibaldi e di Lincoln. Ma quell’avventuriero era davvero qualcuno. Accorso al fianco di Napoleone III nella guerra franco prussiana del 1870,disastrosa per l’imperatore, fu l’unico generale che ottenne una vittoria sui prussiani.
C’era anche
gentaglia nel Risorgimento. Ma c’erano tanti patrioti galantuomini. Italiani d’eccezione: forse poco italiani come Cavour e Garibaldi e come sarebbe stato Alcide De Gasperi. Petacco non incensa. Sono altri che infangano.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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