La verità è che non ci aveva creduto nessuno, che Paolo Garimberti (nella foto) si sarebbe dimesso davvero. Solo che, si sa, le parole sono pietre. Soprattutto quelle che ti rimangi. E allora càpita che il presidente Rai ne abbia aggiunto una miliare, di pietra, non solo alla storia della Rai, ma alla sua personalissima storia.
«Piuttosto mi dimetto», aveva lasciato trapelare alla vigilia dell’ormai famigerato Cda che ha votato a maggioranza le nomine di Alberto Maccari al Tg1 e Alessandro Casarin al Tgr. Non si è dimesso, invece, e però non ha votato, anzi peggio, ha votato no, per la prima volta nella storia della tv di Stato. Di più: le sue mancate dimissioni, Garimberti le ha fatte precedere da un «no comment», e seguire da un grido di aiuto al governo: «L’azienda è ingovernabile».
Un capolavoro. Alle critiche bipartisan di chi gli ha fatto notare che il presidente di un’azienda ingovernabile di solito si dimette, ieri s’è aggiunto l’affondo proprio del soggetto della discordia, Maccari. Il quale in un’intervista al Corriere s’è tolto un macigno dalla scarpa, annotando un’altra parola non mantenuta: il no di Garimberti? Strano, perché «a metà dicembre, quando mi fu affidato l’interim della testata, il presidente fu tra coloro che mi sostennero di più». Bum. Che è successo poi? «Fatti che non mi riguardano» ha messo lì Maccari, che da pensionato in prorogatio ne ha viste abbastanza. Su quali siano i fatti che non riguardano Maccari e però interessano l’azienda pubblica, le dietrologie di questi giorni non lasciano nulla di intentato.
La più accreditata è quella che vede il presidente Rai in cerca di nuovi sostegni a sinistra, in una fase in cui, a due mesi dallo scadere del Cda, la Rai si prepara a un rimescolamento interno con relativo cambio di equilibri, con un governo tecnico che promette interventi a breve perché, dice il premier Mario Monti, la riforma dell’azienda è «una priorità».
Si dice che Garimberti fu scelto in forza di un gentlemen’s agreement fra due esperti della trattativa come l’allora sottosegretario alla presidenza del Consiglio Gianni Letta e l’allora segretario del Pd Dario Franceschini, scuola Dc. Poi tutto è cambiato, a partire dalla leadership democratica. E valli a recuperare i punti con quel post comunista di Pier Luigi Bersani. Partita difficile per uno come Garimberti, di cui si ricorda la teoria delle uova comuniste, che in quanto più bianche e più fragili di quelle occidentali erano, a suo dire, il simbolo della fragilità dell’Urss.
Se la teoria è vera (non quella delle uova, quella della ricerca di consensi a sinistra), non gli è riuscita molto bene. Dopo mesi trascorsi a invocarne invano un gesto, o anche solo una parola, adesso il Pd lo ha scaricato. In casa democrat c’è chi ricorda come persino sulla battaglia del decennio, quella contro l’odiato Augusto Minzolini, il presidente abbia alzato un dito, e nemmeno il medio, soltanto alla fine, quando a massacrare «il Minzo» ci avevano già pensato tutti gli altri. Adesso, a dar voce al Pd c’è il responsabile Informazione Matteo Orfini, secondo il quale non solo Garimberti, ma anche Giorgio Van Straten (quello che nel 2009 Veltroni impose nel Cda con un colpo di mano subito prima di lasciare la guida del partito), «dovrebbero essere più coerenti: dicono che il consiglio è “ingovernabile” ma poi rimangono dentro. Insomma cos’altro deve succedere?».
oro, presidente e consigliere, l’hanno messa come si mette in questi casi: «È più utile e coerente continuare dall’interno la battaglia in difesa della Rai denunciando ogni tentativo di danneggiarla». Ecco, il sistema si combatte da dentro.
Prendi Nino Rizzo Nervo, per dire, che invece lo aveva detto e poi si è dimesso su serio. Macché lezione di stile, quello ha mollato la lotta e i compagni sul più bello. E che importa se nell’ultima parte del mandato hai poco da lottare. Ti puoi sempre riposizionare.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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