nostro inviato a Parma
Sulle tracce degli assassini di Giulio Cesare. Il comandante dei Ris ha già repertato tutto. Col rigore di sempre. Ma questa volta le prove non stanno dentro un contenitore asettico. Si sfogliano. Pagina dopo pagina. L'ultimo lavoro letterario del colonnello Luciano Garofano si intitola «Delitti e misteri del passato».
Sei cold case, ovvero casi freddi. Lontani, anche 2000 anni, ma ancora attualissimi perché offuscati da troppi interrogativi. Cronache che si leggono in apnea. Come un giallo, filosofico e culturale, che trova fondamenta nella storia. Nella Firenze dei Medici piuttosto che nella Roma di Plutarco e Svetonio. Conclusione? «Omicidio-suicidio: Giulio Cesare sapeva che sarebbe stato ucciso, già all'epoca i servizi d'intelligence funzionavano in modo eccellente, e, dopo aver messo in libertà la scorta, andò incontro all'agguato perché la sua salute era minata dall'epilessia». Dinamica del delitto? «Il dictator fu ucciso da 23 pugnalate, ma non lo colpirono tutti i congiurati. Fu un delitto pianificato nei minimi dettagli. Lo abbiamo ricostruito, col supporto delle attuali tecniche d'indagine, proprio qui a Parma. Non ci sarà anche il Dna di Cesare nei laboratori dei Ris... L'antica Roma non s'immaginava nemmeno quel tipo di prova, ma per le indagini di oggi il Dna è uno strumento irrinunciabile. È preoccupante che il nostro Paese non abbia ancora una Banca dati del Dna. Consentirebbe di risolvere casi anche a distanza di anni, di porre in relazione i crimini, di monitorare i delinquenti seriali. Ma anche, badi bene, di scagionare degli innocenti. In Italia si potrebbe partire con molta cautela quindi non con uno screening generalizzato, ma con la raccolta del Dna di soggetti con una condanna almeno a 3 anni. Si preleva loro un campione di saliva. Una parte del campione viene analizzata e confrontata con le tracce lasciate sul luogo del reato e una parte viene conservata, data la serialità dei casi, ma anche perché la tecnologia evolve e anche le indagini cambieranno. Ci sono Paesi come la Gran Bretagna dove ogni prelievo, anche quello del tasso alcolometrico viene immesso nella Banca dati. Scelte politiche, indubbiamente, ma suffragate dai risultati. Da loro senza il Dna si scopriva il 26 per cento dei reati, con la prova del Dna si è arrivati al 38, e adesso con la Banca dati del Dna, al 59. Qualcuno la vede come una forma di schedatura? Non è assolutamente così perché le regioni del Dna che noi esaminiamo ai fini delle indagini non accertano lo stato di salute di un individuo, quindi non sono dati sensibili. Un'altra obiezione è che, conservando campioni di Dna, qualcuno potrebbe farne un uso illegale. Le assicuro che oggi nelle bioteche esistono sistemi di tracciabilità elettronici e meccanici che dissuadono da ogni illecita incursione nel privato. Non disporre oggi di una Banca dati del Dna, significa restare indietro rispetto agli altri Paesi europei in un momento in cui è indispensabile unire gli sforzi contro la criminalità».
Persino il comandante dei Ris ha seminato, inevitabilmente, impronte nella sua vita: alle pareti della sua stanza, assediata dai faldoni, ci sono tracce da esaminare. I crest di decine di reparti internazionali, fotografie di molte scene d'azione che riportano la mente a delitti e indagini, lui con colleghi investigatori a Boston come a Londra, lui che si cala nel burrone da cui è precipitata la contessa Agusta. Ci sono anche tracce che lasciano dubbi, però. Altrimenti avreste già chiuso anche i gialli di Garlasco e Perugia. «Uno o due casi che non trovano soluzione non devono diventare l'emblema della disfatta. L'alibi per liquidare le nuove tecniche e invocare il ritorno del metodo Maigret. Vorrei ricordare che ci sono migliaia di casi risolti: è la normalità, quindi per voi non fa notizia. Con l'aiuto della scienza in vent'anni gli omicidi si sono più che dimezzati. Significa che gli investigatori sanno lavorare. Delitti nell’ambito familiare e delle amicizie significano spesso tracce scarse o confuse. Perugia e Garlasco sono casi difficili. Aspettiamo. Ma aspettare, non vuol dire arrendersi». Difficile inchiodare per un'ora, alla scrivania, l'investigatore dei carabinieri più famoso d'Italia, nel suo quartier generale immerso nel verde del Parco ducale. Ma se si riesce nell'impresa si raccolgono indizi preziosi per trovare, scavando sotto la fiction che ha raccontato i suoi Delitti imperfetti, la realtà. L'elicottero atterra sullo spiazzo antistante il Reparto investigazioni scientifiche. Non scendono il capitano Venturi-Flaherty e i suoi eroi, bensì uomini normali. In divisa. Che fanno i conti, nelle sfide quotidiane, anche con i loro limiti. Domanda inevitabile: esiste il delitto perfetto? «No, esiste l'indagine imperfetta. Dobbiamo essere consapevoli che possiamo sbagliare. Mettere in preventivo l'errore. Imparare dagli errori del passato, sperimentare tecniche nuove e sforzarci di migliorare: è il filo che cuce le sei storie del volume che ho scritto con Silvano Vinceti e il biologo Giorgio Gruppioni. La scienza cui noi oggi attingiamo, non esclude, ma anzi, si coniuga con le indagini tradizionali. Fatte di testimonianze, conoscenza del territorio, ricerca dei moventi. È questo il nuovo modo di investigare. Anzi dirò di più, quando facciamo corsi di formazione ai nostri marescialli ci accorgiamo che la loro tecnica di indagine si affina e la consapevolezza del loro apporto si irrobustisce». Ci sono anche tracce rovinate dall'imperizia.
Il caso Pasolini, raccontato nel libro è significativo. «Leggere gli atti di quel delitto mi ha allarmato: ieri si andava sul luogo dell'omicidio senza preparazione. Noi e la polizia scientifica dobbiamo arrivare a standard di qualità degni di una certificazione Iso, preservando sempre meglio la scena del crimine. Insegnando anche gli operatori del 118 a prendere precauzioni, a osservare regole fondamentali per non contaminarla col loro intervento. Quando è stato scoperto il delitto Pasolini, c’erano i ragazzi di borgata che giocavano al pallone accanto al suo corpo maciullato. Un disastro. Ma oggi possiamo rimediare, visto che ci sono ancora dei reperti disponibili». In altre parole se dipendesse da lei riaprirebbe il caso? «Forse, con molta cautela, si potrebbe riaprire. A maggior ragione dopo le recenti dichiarazioni del reo confesso di quel delitto, che ha confermato che non ha ucciso da solo Pasolini. D'altra parte il caso dell'Olgiata dimostra che, con le nuove tecniche d'indagine, si può cercare un'altra verità anche dopo anni». Tra i microscopi e le piroette balistiche ci si annoia, qualche volta? «Io sono innamorato del mio lavoro, ogni giorno di più. E orgoglioso dei Ris. Ma credo sia indispensabile fare un passo in avanti e costruire assieme ai colleghi della polizia scientifica, ai tecnici privati e della medicina legale un altro strumento prezioso per il nostro Paese, l' Istituto Nazionale per le Scienze Forensi. Sull’esempio del Forensic Science Service di Birmingham.
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