Gerusalemme non vuole i Caschi blu

Andrea Nativi

Una forza internazionale di interposizione a guida Nato per sorvegliare il confine caldo tra Libano e Israele. Questa sarebbe la soluzione ideale della crisi in atto secondo Gerusalemme. E non a caso Israele fa riferimento a una forza a comando Nato, perché non ha alcuna fiducia né nella capacità militare né nell’efficacia di una forza Onu. Del resto l’esperienza negativa dell’Unifil, che pure dispone di oltre 2mila militari e 400 civili di supporto, sta a testimoniarlo.
Quando il livello della minaccia è critico e vi è l’elevata probabilità di dover far ricorso alle armi non solo per autodifesa, ma anche per poter effettivamente eseguire la missione, l’impiego di una forza Onu va escluso a priori. Intanto perché le forze multinazionali delle Nazioni Unite hanno una connotazione «arcobaleno», sono formate da piccoli contingenti nazionali, utili per far numero e dare una vernice di universalità, ma controproducenti dal punto di vista operativo. In secondo luogo l’Onu ha dimostrato nei Balcani di non avere una struttura di comando e controllo civile-militare adeguata per poter rispondere militarmente a situazioni di crisi. La Nato invece, se le regole di ingaggio e il mandato sono adeguati, è in grado di affrontare anche le più difficili situazioni. Tuttavia in questo caso bisogna valutare bene il ginepraio nel quale ci si potrebbe andare a impelagare.
Israele non ha nessuna voglia di ripetere l’esperienza di controllo di una fascia di sicurezza in Libano ed è ben lieta che qualcun altro lo faccia in sua vece, sia la Nato o, eventualmente, l’esercito libanese. Questo perché si tratta di una missione pericolosa, logorante, costosa e che richiede l’impegno di migliaia di soldati. Tra l’altro, anche con una forza Nato sul terreno, se Tsahal avesse bisogno di colpire bersagli in Libano potrebbe farlo egualmente, utilizzando mezzi aeronavali, senza bisogno di passare sulle teste dei soldati dell’Alleanza. Hezbollah invece sarebbe impotente nei confronti del nemico ed è quindi naturale che non accolga con favore una soluzione di questo tipo e che minacci di attaccare i soldati Nato.
La comunità internazionale viene quindi chiamata a sobbarcarsi un onere significativo con un’operazione che non ha alcuna exit strategy e che rischia di diventare senza fine. Ammesso che ci sia il consenso tra i partner Nato, occorre definire anche chi fa/paga cosa e, soprattutto, quale contropartita strategica e politica si vuole chiedere a Israele in cambio di un così grande «regalo».
Ma mentre si parla di possibili soluzioni, le operazioni proseguono. Ancora niente offensiva terrestre, continuano a essere utilizzati soprattutto aerei, elicotteri e artiglieria. L’aeronautica israeliana ha colpito quasi 2.000 «aimpoints», punti di mira (ogni bersaglio può avere diversi aimpoints) e i target prepianificati cominciano a scarseggiare. I cacciabombardieri continuano a utilizzare sia armi guidate «intelligenti» sia convenzionali.

Ed è curioso che in questa situazione i generali israeliani siano criticati sia perché hanno richiesto agli Usa di accelerare le consegne di armi di precisione e da penetrazione ordinate da tempo, sia perché impiegano ordigni «tradizionali» a fianco di quelli guidati. In ogni caso la polemica è infondata: nessuna norma prescrive quali di queste armi si debbano usare.

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