Alì(ghiero) Boetti, un torinese con il cuore in Afghanistan

Nella mitologia infantile di Alighiero Boetti (1940-1994) gioca un ruolo importante la figura dell’antenato settecentesco Giovanni Battista Boetti, viaggiatore e missionario domenicano convertitosi al sufismo, che aveva combattuto contro l’imperialismo zarista nel Caucaso sotto il nome di «profeta Mansur». Aveva cercato l’Oriente in tutti i modi, questo monaco studente in medicina, finché era riuscito a partire per il Medio Oriente con la Congregazione di Propaganda Fide, viaggiando tra Mosul, Costantinopoli, il Kurdistan, l’Armenia, la Circassia. E assumendo identità diverse fino a essere chiamato imam, Sheikh e Mansur, il vittorioso. Ce n’era abbastanza perché il piccolo Alighiero sognasse una vita avventurosa e l’Oriente, sogno riflesso nella mostra al museo Madre di Napoli («Alighiero & Boetti. Mettere all’arte il mondo» a cura di Achille Bonito Oliva, catalogo Electa).
Nel ’71, mentre si affievoliscono i legami con l’Arte povera, Boetti fa il primo viaggio in Afghanistan che diventerà la sua seconda patria. A Bamyan, scavate nella roccia, stavano le due iperboliche sculture di Buddha poi distrutte dai talebani, e lì Alighiero e la prima moglie Annemarie, volgendo le spalle ai giganti, scorgono la misera casa da tè all’interno della quale avviene la rivelazione. Attaccata a un chiodo, pende su una parete una pagina di rivista ricoperta di plastica: un astronauta che passeggia nel vuoto accanto alla sua navicella spaziale. Alighiero sussurra ad Annemarie: «In tutti i tempi e in tutti i luoghi l’essenziale dell’arte è un’immagine frontale: foto, ex voto, calendario, calligrafia, mandala, grandiosa o povera, eterna o fragile, comunque un’icona eletta». È da qui che nascono le sue Mappe. È da qui che emerge anche la sua «transculturalità». Tra i lavori con gli arazzi ricamati dalle donne afghane un ruolo di rilievo spetta sicuramente proprio alle Mappe, planisferi colorati con le bandiere.
Da Kabul, dove Alì Ghiero (come lì veniva chiamato) avrebbe voluto vivere per sempre, Boetti portava sempre con sé la cassettina con le chiavi delle stanze dell’One Hotel, l’albergo che vi aveva aperto nel ’71 e di cui sempre parlava. Mi ha sempre colpito il fatto che questa cassettina di legno da cui Alighiero non si era mai separato avesse la stessa struttura a griglia che avevano molti suoi lavori, la stessa struttura della vetrata Niente da vedere, niente da nascondere. L’albergo aveva undici stanze: si trattava di un piccolo hotel, ben considerato nella Kabul degli anni Settanta, non era facile trovarvi posto. Era un punto di ritrovo: i clienti erano americani, inglesi, tedeschi, principalmente amici di Boetti, ma anche viaggiatori di passaggio.
Il One Hotel era la casa dell’artista a Kabul. Si trovava in pieno centro, in una zona chiamata Share Nau, su un’arteria commerciale, accanto al negozio più moderno della città, l’Aziz supermarket. Una grande villa dove, oltre alle undici stanze, c’erano un paio di bagni, un salotto e il ristorante al piano di sotto. E anche un grande giardino, con due file di tavoli sotto due pergolati. Il cuoco Eghuaz preparava riso, zuppe afghane, ma anche bistecca e patatine fritte. Boetti andava fiero della cucina espressa dell’albergo, arredato alla maniera afghana, con grandi letti, cuscini, tappeti a terra.
L’albergo era una paradossale performance permanente, un contributo al rapporto tra arte e vita. «Afghanistan, amato paese ove ottantacinquemila soldati russi entrati nel dicembre settenove detengono potere. Alighiero e Boetti negli ultimi solari giorni di ottobre anno diciannove e ottanta da più di un anno lontano» scriveva con infinita nostalgia dopo un solo anno di forzata lontananza. Il legame di Boetti con questa terra e il suo popolo era fortissimo, solo lì il grande viaggiatore aveva trovato la sua casa. Il «suo» Oriente. Ritengo giusta l’opinione di Annemarie Sauzeau che Boetti si fosse «rassegnato» a vivere a Roma, ma che, senza l’occupazione sovietica, sarebbe andato a vivere per sempre in Afghanistan.
Ricordo Alighiero entusiasmarsi e «tifare» per la lotta eroica e impari dei mujaheddin afghani contro l’occupazione sovietica. L’artista italiano ha sostenuto e finanziato questa lotta. Il suo eroe era Massud, il «leone del Panshir». Purtroppo non ebbe mai modo di conoscerlo personalmente, come testimonia la moglie Caterina che invece lo incontrò. Massud il mujahed, che sale sulle montagne a combattere per il suo popolo contro l’invasione sovietica (e tornerà poi a combattere contro i talebani), Massud il musulmano profondamente religioso, ma non fondamentalista, Massud il comandante che dopo essere entrato vittorioso a Kabul il 17 aprile 1992 accorda libertà di stampa e di associazione, diritto di voto non solo agli uomini, ma anche alle donne, Massud il generoso che, costretto a evacuare la capitale assediata dai talebani nella notte tragica del 26 settembre 1996, si offre di condurre con sé l’ex presidente comunista Najibullah per tentare di salvargli la vita, Massud il tagiko che difende l’indipendenza dello Stato afghano nazionale e laico, fino alla morte. Due giorni prima dell’attentato dell’11 settembre due terroristi suicidi di Al Qaida, fingendosi giornalisti, riescono ad assassinare Massud.


Alighiero non ha saputo dell’assassinio del suo eroe. Era morto sette anni prima, il 24 aprile 1994. Aveva chiesto che le sue ceneri fossero disperse sulle acque dei sette laghi di Bandi A Mir, in mezzo al deserto, nell’ovest dell’Afghanistan.

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